Racconti
In questa sezione si possono trovare alcune storie e racconti orientali e Zen che potranno essere di aiuto
e di stimolo alla crescita non solo intelletuale.
La lettura è per la mente quel che l'esercizio è per il corpo
Addison Joseph
Scrittore e drammaturgo britannico
Il maestro e il viaggiatore
Itsuki era un viaggiatore in cerca della felicità. Aveva attraversato l'intero mondo ma non era ancora riuscito a trovare quello che cercava.
Una sera arrivò in un piccolo villaggio di montagna e nel villaggio incontrò un maestro.
Il maestro era un uomo saggio e gentile. I due s'incamminarono sul sentiero che portava alla cima della montagna, e mentre salivano verso la vetta il maestro ascoltò Itsuki che gli raccontò del suo viaggio alla ricerca della felicità.
Quando Itsuki terminò il racconto il maestro gli disse: "La felicità non è una cosa che si può trovare, la puoi solo creare dentro di te".
Itsuki si sorprese delle parole del maestro e gli chiese come poteva fare a creare la felicità dentro di lui.
Il maestro con un sorriso rispose: "Devi necessariamente trasformarti dentro, mutando i contrari."
"Cosa?" chiese Itsuki.
"E' l'alchimia degli opposti." rispose il maestro.
"Io non capisco..." continuò Itsuki, "Cosa devo fare, Maestro?".
"Non devi pensare al fare. Devi solo pensare 'all'essere' e la trasformazione comincerà in modo naturale."
Itsuki rimase folgorato dalle ultime parole del maestro che ringraziò sinceramente.
Da quel momento smise di pensare a cosa fare e continuò semplicemente a vivere cercando di farlo nel modo più silenzioso possibile.
Eliminò il brusio interiore e esteriore e non si curò più del chiacchericcio che la gente stupida gli creava attorno.
Più spazio vuoto creava dentro di sé, più si sentiva in pace e leggero, e più nuove intuizioni entravano.
Itsuki aveva imparato a creare spazio: eliminando le preoccupazioni sul come fare, arrivò in un istante il "che fare" e il "come essere".
Racconto Zen
Capire i bisogni
In Cina c'era una vecchia signora che da più di venti anni manteneva un monaco. Gli aveva costruito una piccola capanna e gli dava da mangiare mentre lui meditava.
Un giorno la vecchia signora si domandò quali progressi il monaco avesse fatto in tutto quel tempo.
Per scoprirlo si fece aiutare da una ragazza piena di desiderio: "Và da lui e abbraccialo..." - le disse - "...e poi domandagli di punto in bianco:
'E adesso?'".
La ragazza andò dal monaco e cominciò ad accarezzarlo, domandandogli che cosa si proponesse di fare con lei.
Il monaco senza neanche guardarla rispose: "Un vecchio albero cresce su una roccia fredda nel cuore dell'inverno. Non c'è più calore in nessun luogo!".
La ragazza andò a riferire alla vecchia signora quello che il monaco le aveva detto.
"E pensare che ho mantenuto quell'individuo per vent'anni!" - proruppe la vecchia signora indignata.
"Non ha dimostrato neanche la minima considerazione per i tuoi bisogni, non ha nemmeno provato a capire la tua situazione. Ovviamente non era necessario che rispondesse alla passione, ma avrebbe dovuto almeno dimostrare di capire i tuoi bisogni!".
Così andò senza indugio alla capanna del monaco, vi appiccò il fuoco e la distrusse.
La storia dell'anello
Un giorno, un ragazzo si recò presso l’anziano maestro spirituale del suo villaggio.
“Sono venuto qui, maestro, perché mi sento inutile. Mi dicono che sono un inetto, che non faccio bene niente, che sono maldestro e un po’ tonto. Come posso migliorare? Che cosa posso fare perché mi apprezzino di più?”.
Il maestro lo guardò per un po’ rimanendo in silenzio, poi gli disse: “Prima che io possa rispondere alla tua domanda, ho bisogno del tuo aiuto per una faccenda“.
Si tolse un anello che portava al mignolo della mano sinistra e, porgendolo al ragazzo, aggiunse:
“Prendi il cavallo che c’è là fuori e va’ al mercato. Ho bisogno di vendere questo anello perché devo pagare un debito. Vorrei ricavarne una bella sommetta, per cui non accettare meno di una moneta d’oro. Vai e ritorna con la moneta d’oro il più presto possibile.”
Il giovane prese quindi l’anello e partì.
Appena fu giunto al mercato iniziò a offrire l’anello ai mercanti, che lo guardavano con un certo interesse finché il giovane diceva il prezzo. Quando però il ragazzo menzionava la moneta d’oro, alcuni si mettevano a ridere, altri ancora giravano la faccia dall’altra parte e soltanto un vecchio gentile si prese la briga di spiegargli che una moneta d’oro era davvero troppo in cambio di quell’anello.
Pur di aiutarlo, qualcuno gli offrì una moneta d’argento e un recipiente di rame, ma il giovane aveva istruzioni precise di non accettare meno di una moneta d’oro e rifiutò quindi tutte le offerte.
Dopo diverse ore, non ottenendo alcun risultato, il ragazzo montò nuovamente a cavallo e, demoralizzato per il fallimento, intraprese la via del ritorno.
Quanto avrebbe desiderato avere una moneta d’oro per regalarla al maestro e liberarlo dalle sue preoccupazioni! Così, finalmente, avrebbe ottenuto il suo consiglio e l’aiuto.
Entrò nella sua stanza.
“Maestro” disse “mi dispiace. Non è possibile ricavare quello che chiedi. I mercanti mi hanno offerto al massimo una moneta d’argento e io ho rifiutato, come mi avete chiesto. Questo anello non vale quanto affermi.”
“Quello che hai detto è molto importante, giovane amico” rispose il maestro sorridendo, “ma sappi che, per poter vendere qualcosa, prima bisogna conoscerne il vero valore! Rimonta a cavallo a vai dal gioielliere. Chi può sapere meglio di lui il valore di un anello? Digli che vorresti venderlo e chiedigli quanto possa valere. Ma mi raccomando: non importa quanto ti dirà, non venderlo a nessuno! E ritorna qui con il mio anello.”
Il ragazzo, un po’ dubbioso ma deciso a fidarsi delle parole dell’anziano maestro, montò quindi nuovamente a cavallo.
Il gioielliere esaminò l’anello alla luce della lanterna, lo guardò con la lente, lo soppesò e disse al giovane:
“Questo anello ha un valore di 58 monete d’oro”.
“Cinquantotto monete d’oro?” esclamò il ragazzo sorpreso.
“Sì” rispose il gioielliere, “avendo un po’ di tempo a disposizione, magari pulendolo e lucidandolo un pochino, potremmo venderlo anche a 70“.
Il giovane, sbalordito, ringraziò il gioielliere e tornò di corsa dal maestro.
“Siediti” disse l’anziano dopo aver ascoltato ciò che il ragazzo aveva scoperto, “tu sei come questo anello: un gioiello unico e prezioso. E come tale puoi essere valutato soltanto da un vero esperto. Perché pretendi che chiunque sia in grado di scoprire il tuo vero valore e magari giudicarti senza averne le competenze?”
E così dicendo si infilò di nuovo l’anello al mignolo della mano sinistra e tornò a sbrigare le sue faccende quotidiane.
Un racconto cinese
C’era una volta un principe nobile d’animo e saggio sulle cui terre regnava grande armonia. Tutti amavano i regnanti che imponevano sempre leggi giuste che contribuivano al benessere del popolo.
In quel regno si svolgeva un rituale molto particolare: con l’arrivo dell’anno nuovo i contadini erano soliti donare colombe al principe.
Colombe in volo.
Proprio in quei giorni, passava di lì un forestiero che provò curiosità per quello strano rituale. Assistette al rito di gente che, da ogni dove, portava le colombe in dona al principe. Rimase lì per un po’, incuriosito da cosa ne avrebbe fatto il sovrano di quei regali insoliti.
Ecco che il principe riunì tutte le colombe in una gabbia per poi liberarle. I presenti applaudivano e mostravano consenso.
In quella occasione un anziano si fece spazio tra la moltitudine e chiese rispettosamente il permesso di prendere parola. Il principe gli presto ascolto e l’anziano uomo gli domandò quante colombe fosse riuscito a raccogliere. Il principe rispose circa 200.
L’anziano rispose: “Per portare queste 200 colombe, gli uomini sono andati a caccia e ne hanno uccise circa 600. Quale merito credi di avere ora, liberando quelle rimaste vive?” Il principe capì il proprio errore e vietò il rituale. Il forestiero portò via con sé una grande lezione di vita da quelle terre.
Nelle mani del destino
Un grande guerriero giapponese che si chiamava Nobunaga decise di attaccare il nemico sebbene il suo esercito fosse numericamente soltanto un decimo di quello avversario.
Lui sapeva che avrebbe vinto, ma i suoi soldati erano dubbiosi.
Durante la marcia si fermò ad un tempio shintoista e disse ai suoi uomini:
"Dopo aver visitato il tempio butterò una moneta. Se viene testa vinceremo, se viene croce perderemo. Siamo nelle
mani del destino".
Nobunaga entrò nel tempio e pregò in silenzio. Uscì e gettò una moneta. Venne testa.
I suoi soldati erano così impazienti di battersi che vinsero la battaglia senza difficoltà.
"Nessuno può cambiare il destino" disse a Nobunaga il suo aiutante dopo la battaglia.
"No davvero" disse Nobunaga, mostrandogli una moneta che aveva testa su tutte e due le facce.
Il topolino
Attraverso un piccolo buco del muro il topolino guardava il contadino e la moglie che stavano aprendo un pacchetto - “Che cibo ci sarà?” – si chiedeva il topolino.
Un attimo dopo rimase sconvolto perché vide che nel pacchetto c'era una trappola per topi.
A quel punto il topolino fece il giro della fattoria avvisando tutti: - “C’è una trappola per topi in casa! C’è una trappola per topi in casa!”.
Il pollo alzò la testa e disse: – “Signor Topo, capisco che è una cosa grave per te, ma a me non riguarda. Questa cosa non mi preoccupa affatto”.
Poi il topolino andò dal maiale dicendogli: - “C’è la trappola per topi in casa! C’è la trappola per topi in casa!”.
Il maiale con empatia disse: – “Mi dispiace molto, Signor Topo, ma non c’è nulla che io possa fare, eccetto pregare. Ti assicuro che sarai fra le mie preghiere”.
Il topolino allora andò dalla mucca: – “C’è una trappola per topi in casa! C’è una trappola per topi in casa!”.
La mucca disse: – “Ohh... Sig. Topo, mi dispiace per te... ma a me non disturba!”.
Quindi, il topolino tornò in casa, con la testa bassa, molto scoraggiato, perché sapeva che doveva affrontare da solo la fatidica trappola.
Durante la notte si sentì uno strano rumore che echeggiò per la casa, come quello di una trappola che afferra la sua preda.
La moglie del contadino si alzò subito per vedere cosa c'era nella trappola. Nel buio però non vide che con la coda bloccata nella trappola c'era un serpente velenoso.
Il serpente morsicò la povera donna, e il contadino dovette portarla d’urgenza all’ospedale, con la febbre molto alta.
Come molti sanno, nella cultura contadina la febbre si cura con una zuppa di pollo fresco, quindi il contadino prese il suo coltellone e uscì nel pollaio per rifornirsi con l’ingrediente principale della zuppa. La malattia della moglie però non passava e così tanti amici vennero a trovarla per starle vicino. La casa era piena e per nutrire tutti il contadino dovette macellare il maiale.
Purtroppo di li a poco la moglie morì e tanta gente arrivò al suo funerale tanto che il contadino dovette macellare la mucca per offrire il pranzo a tutti.
Il topolino dal piccolo buco del muro guardò il tutto con grande tristezza.
La prossima volta che senti che qualcuno sta affrontando un qualche problema e pensi che non ti riguardi,
ricorda che quando uno di noi viene colpito, siamo tutti a rischio.
Siamo tutti coinvolti in questo viaggio chiamato Vita.
“Quando senti suonare la campana
non chiederti per chi suona.
Essa suona anche per te”
Ernest Hemingway
Urashima Tarō (浦島太郎)
Quella di Urashima Tarō è una delle più conosciute favole giapponese.
Ringraziamo Shishigami di Kanjimania per la traduzione.
むかしむかし、ある村に、心のやさしい浦島太郎(うらしまたろう)という若者がいました。
Tanto tempo fa, in un villaggio, viveva un giovane di buon cuore chiamato Urashima Tarō.
浦島(うらしま)さんが海辺を通りかかると、子どもたちが大きなカメを捕まえていました。
Urashima san, passando lungo la spiaggia, incrociò un gruppo di bambini che avevano catturato una tartaruga gigante.
そばによって見てみると、子どもたちがみんなでカメをいじめています。
Guardando da vicino, vide che i bambini stavano maltrattando la tartaruga.
「おやおや、かわいそうに、逃がしておやりよ」
“Santo cielo! Poveretta, lasciatela andare!”
「いやだよ。おらたちが、やっと捕まえたんだもの。どうしようと、おらたちの勝手だろ」
“Nemmeno per sogno! Finalmente l’abbiamo catturata. Ciò che faremo sarà affar nostro.”
見るとカメは涙をハラハラとこぼしながら、浦島さんを見つめています。
Mentre la tartaruga versava copiosamente grossi lacrimoni, Urashima san continuava a fissare la scena.
浦島さんはお金を取り出すと、子どもたちに差し出して言いました。
Urashima san tirò fuori del denaro e lo offrì ai bambini dicendo:
「それでは、このお金をあげるから、おじさんにカメを売っておくれ」
“Bene, allora, dato che vi do questi soldi, vendete allo zietto la tartaruga!”
「うん、それならいいよ」
“Ok, se la metti così va bene!”
こうして浦島さんは、子どもたちからカメを受け取ると、
Così facendo, Urashima san ricevette dai bambini la tartaruga
「大丈夫かい? もう、捕まるんじゃないよ」
“Stai bene? Non farti più catturare!”
と、カメをそっと、海の中へ逃がしてやりました。
Così dicendo, liberò gentilmente la tartaruga nel mare.
さて、それから二、三日たったある日の事、浦島さんが海に出かけて魚を釣っていると、
Tre giorni passarono, e Urashima san uscì a pescare in mare quando...
「・・・浦島さん、・・・浦島さん」
“…Urashima san! …Urashima san!”
と、誰かが呼ぶ声がします。
Lo chiamò qualcuno.
「おや? 誰が呼んでいるのだろう?」
“Uh? Chi è che mi chiama?”
「わたしですよ」
“Sono io!”
すると海の上に、ひょっこりとカメが頭を出して言いました。
Fu così che improvvisamente, tra le acque del mare uscì la testa della tartaruga che disse:
「このあいだは助けていただいて、ありがとうございました」
“Grazie infinite per avermi salvato l’altro giorno”
「ああ、あの時のカメさん」
“Ah, sei la tartaruga di allora”
「はい、おかげで命が助かりました。ところで浦島さんは、竜宮(りゅうぐう)へ行った事がありますか?」
“Si, grazie a te ho avuta salva la vita. A proposito, Urashima san, sei mai stato al Palazzo del Drago?”
「竜宮? さあ? 竜宮って、どこにあるんだい?」
“Il Palazzo del Drago? Dici davvero? E dove sarebbe?”
「海の底です」
“Si trova in fondo al mare”
「えっ? 海の底へなんか、行けるのかい?」
“Eh? Tu saresti in grado di andare fino in fondo al mare?”
「はい。わたしがお連れしましょう。さあ、背中へ乗ってください」
“Certo. Lascia che ti ci porti. Dai, sali sulla mia schiena”
カメは浦島さんを背中に乗せて、海の中をずんずんともぐっていきました。
Con Urashima san sulla schiena, la tartaruga si immerse rapidamente tra le acque del mare.
海の中にはまっ青な光が差し込み、コンブがユラユラとゆれ、赤やピンクのサンゴの林がどこまでも続いています。
Le acque del mare brillavano di una luce dal colore blu intenso, le alghe vibravano dolcemente mentre intere foreste di coralli rossi e rosa erano ovunque.
「わあ、きれいだな」
“Ohh, è bellissimo!”
浦島さんがウットリしていると、やがて立派なご殿(てん)へ着きました。
“Entro breve, mentre Urashima san si gode il paesaggio, saremo arrivati al meraviglioso palazzo”
「着きましたよ。このご殿が竜宮です。さあ、こちらへ」
“Siamo arrivati! Questo è il Palazzo del Drago. Su, da questa parte”
カメに案内されるまま進んでいくと、この竜宮の主人の美しい乙姫(おとひめ)さまが、色とりどりの魚たちと一緒に浦島さんを出迎えてくれました。
Mentre Urashima san avanzava guidato dalla tartaruga, la bella e giovane principessa signora del palazzo insieme ad una moltitudine di pesci colorati gli diede il benvenuto.
「ようこそ、浦島さん。わたしは、この竜宮の主人の乙姫です。このあいだはカメを助けてくださって、ありがとうございます。お礼に、竜宮をご案内します。どうぞ、ゆっくりしていってくださいね」
“Benvenuto Urashima san. Io sono la principessa del Palazzo del Drago. Grazie infinite per aver salvato la tartaruga l’altro giorno. Per ringraziarti, ti farò da guida nel Palazzo del Drago. Prego, avanza lentamente.”
浦島さんは、竜宮の広間ヘ案内されました。
Urashima san venne guidato nei saloni del Palazzo del Drago.
浦島さんが用意された席に座ると、魚たちが次から次へと素晴らしいごちそうを運んできます。
Urashima san si sedette al posto che gli era stato preparato, mentre i pesci, uno dopo l’altro, gli portavano dei piatti meravigliosi.
ふんわりと気持ちのよい音楽が流れて、タイやヒラメやクラゲたちの、それは見事な踊りが続きます。
La dolce musica di pagelli, platesse e meduse risuonava dolcemente, seguita da una splendida danza.
ここはまるで、天国のようです。
Il posto era in tutto e per tutto simile al paradiso.
そして、
E così,
「もう一日、いてください。もう一日、いてください」
“Resta ancora un giorno. Resta ancora un giorno.”
と、乙姫さまに言われるまま竜宮で過ごすうちに、三年の月日がたってしまいました。
Continuava a dirgli la principessa, e mentre spendeva il suo tempo nel Palazzo del Drago, finirono per passare tre anni.
ある時、浦島さんは、はっと思い出しました。
(家族や友だちは、どうしているだろう?)
Un giorno Urashima san ripensò al passato.
(Che staranno facendo i miei familiari e i miei amici?)
そこで浦島さんは、乙姫さまに言いました。
E così, disse alla principessa:
「乙姫さま、今までありがとうございます。ですが、もうそろそろ家へ帰らせていただきます」
“Principessa, la ringrazio di tutto quanto ha fatto fino ad oggi. Però, vorrei tornare a casa entro breve”
「帰られるのですか? よろしければ、このままここで暮しては」
“Ritornare dici? Se lo desideri, puoi vivere qui come hai fatto fin’ora”
「いいえ、わたしの帰りを待つ者もおりますので」
“No, ci sono delle persone che aspettano il mio ritorno”
すると乙姫さまは、さびしそうに言いました。
La principessa sembrò rattristata e disse:
「・・・そうですか。それはおなごりおしいです。では、おみやげに玉手箱(たまてばこ)を差し上げましょう」
“…capisco. Mi dispiace vederti partire. Ecco, prendi questa scatola preziosa come ricordo.
「玉手箱?」
“Una scatola preziosa?”
「はい。この中には、浦島さんが竜宮で過ごされた『時』が入っております。
これを開けずに持っている限り、浦島さんは年を取りません。
ずーっと、今の若い姿のままでいられます。
ですが一度開けてしまうと、今までの『時』が戻ってしまいますので、決して開けてはなりませんよ」
“Si. Qui dentro è stato messo il tempo che Urashima san ha passato nel Palazzo del Drago. Finché resterà chiusa, Urashima san non invecchierà. Potrai restare sempre giovane come adesso. Ma se l’aprirai anche una sola volta, il tempo passato fino ad adesso ritornerà, quindi, non aprirla mai!”
「はい、わかりました。ありがとうございます」
“Si, ho capito. Grazie infinite”
乙姫さまと別れた浦島さんは、またカメに送られて地上へ帰りました。
Separatosi dalla principessa, Urashima san venne trasportato di nuovo dalla tartaruga e tornò in superficie.
地上にもどった浦島さんは、まわりを見回してびっくり。
Tornato in superficie, restò stupito guardandosi attorno.
「おや? わずか三年で、ずいぶんと様子が変わったな」
“Eh? Sono passati solo tre anni, eppure la situazione è cambiata moltissimo”
確かにここは浦島さんが釣りをしていた場所ですが、何だか様子が違います。
Quello era sicuramente il posto dove Urashima san andava a pescare, eppure le cose erano in qualche modo diverse.
浦島さんの家はどこにも見あたりませんし、出会う人も知らない人ばかりです。
La sua casa non si trovava da nessuna parte, e le persone che incontrava non erano altro che sconosciuti.
「わたしの家は、どうなったのだろう? みんなはどこかへ、引っ越したのだろうか? ・・・あの、すみません。浦島の家を知りませんか?」
“Che sarà successo alla mia casa? Dove saranno tutti quanti, si sono trasferiti? …ehm, mi scusi, conosce la casa di Urashima?”
浦島さんが一人の老人に尋ねてみると、老人は少し首をかしげて言いました。
Urashima san, provò a chiedere ad un vecchio solitario, il qualche inclinò un po’ la testa da una parte e disse:
「浦島? ・・・ああ、確か浦島という人なら七百年ほど前に海へ出たきりで、帰らないそうですよ」
“Urashima? …aah, sono certo che ci fu una persona di nome Urashima che 700 anni fa dopo essere uscito in mare non fece più ritorno”
「えっ!?」
“Ehhh!?”
老人の話しを聞いて、浦島さんはびっくり。
Sentendo la storia del vecchio, Urashima san restò di sasso.
竜宮の三年は、この世の七百年にあたるのでしょうか?
3 anni nel Palazzo del drago erano forse equivalenti a 700 anni in questo mondo?
「家族も友だちも、みんな死んでしまったのか・・・」
“I miei familiari ed i miei amici sono dunque tutti quanti morti…”
がっくりと肩を落とした浦島さんは、ふと、持っていた玉手箱を見つめました。
Col cuore a pezzi e afflitto, Urashima san posò d’un tratto lo sguardo sulla scatola che portava con se.
「そう言えば、乙姫さまは言っていたな。
この玉手箱を開けると、『時』が戻ってしまうと。
・・・もしかしてこれを開けると、自分が暮らしていた時に戻るのでは」
そう思った浦島さんは、開けてはいけないと言われていた玉手箱を開けてしまいました。
Ora che ci penso, la principessa me ne aveva parlato. Aprendo questa scatola, Il tempo finirà per tornare…forse significa che se la apro tornerò io stesso al tempo che ho vissuto”
Così pensando, Urashima san aprì la scatola che gli era stato detto di non aprire.
うらしまたろう
Urashima Tarō…
モクモクモク・・・。
Fumo fumo fumo…
すると中から、まっ白のけむりが出てきました。
Fu così che dall’interno uscì del fumo completamente bianco.
「おおっ、これは」
“Ohhh, questo…”
けむりの中に、竜宮や美しい乙姫さまの姿がうつりました。
In mezzo al fumo, le immagini del Palazzo del Drago e della bellissima principessa si muovevano.
そして楽しかった竜宮での三年が、次から次へとうつし出されます。
Oltre a questo, i tre anni felici che aveva passato si replicavano uno dopo l’altro.
「ああ、わたしは、竜宮へ戻ってきたんだ」
“Ahhh, sono tornato al Palazzo del Drago”
浦島さんは、喜びました。
Urashima san fu felice.
でも玉手箱から出てきたけむりは次第に薄れていき、その場に残ったのは髪の毛もひげもまっ白の、ヨボヨボのおじいさんになった浦島さんだったのです。
Tuttavia, il fumo venuto fuori dalla scatola andò gradulamente svanendo, e ciò che rimase era un Urashima san diventato vecchio e debole, con i capelli e la barba bianche.
La ricerca del guerriero
di: Franco Piccirilli
E’ mattina quando il guerriero esce e scende in spiaggia avviandosi lentamente… verso il mare.
La risacca sembra una dolce musica nell’aria, mentre i gabbiani, con le loro grida, fanno da coro al suono del mattino… egli sorride e ascolta.
In spiaggia alcune figure si muovono lente e assonnate nella loro quotidiana attività per l’accoglienza dei bagnanti che verranno…
L’aria del mattino è fresca, quasi sembra pizzicare la pelle e sulla riva c’è ancora l’ombra degli alberi che presto lascerà il posto alla luce del sole che sta per fare capolino, come a volersi inserire da dietro, partecipando così a quella che forse è una danza… di suoni e colori.
Così il guerriero in riva al mare respira; respira l’odore di quel mattino e si avvia, camminando sulla battigia, con il passo calmo, sicuro, di chi sente di essere parte della bellezza del tutto. Il suo corpo segue il movimento naturale dei suoi passi, assecondandone l’alternanza, quasi godendo di ogni suo movimento: dalla spinta del piede, lo stacco, l’oscillazione e l’appoggio, in un ritmo rilassato e naturale, come il cadere di una foglia segue il vento, così i suoi passi seguono il terreno sotto i suoi piedi…. Quel ritmo che si confonde con l’ambiente, che non è distinto, ma inserito, ne è parte, ne è… unito.
Anche la mente partecipa a questo scenario. Questa, infatti, non può essere diversa da ciò che quel corpo esprime: tranquilla e serena, consapevole di quel corpo, così come quel corpo è consapevole della mente… Meravigliosamente uniti in quei colori di inizio mattino, ancora non ben definiti, ma che già lasciano intravedere ciò che sarà. Così ciò che appare, che sembra essere e forse lo è, è energia che si muove…
Il guerriero percorre per intero il tratto di spiaggia per arrivare al posto che lui conosce e che sa essere… il suo posto.
Durante il suo percorso, alcune figure lente e assorte nella loro occupazione quotidiana, avvertono la sua presenza, lo sentono e lo salutano quasi in una forma reverenziale, percependone, forse, la diversità da loro, la sua naturalità, avvertendo il movimento dell’energia… forse perché loro sono distinti da ciò che è… naturale che sia.
Lo conoscono, lo riconoscono, come protagonista di un riturale mattutino. Il guerriero li saluta con delicata gentilezza e passa oltre, lasciandosi dietro quell’artificio che l’uomo ha costruito sulla spiaggia, per dimenticare ciò che egli è.
Il suo sguardo penetra avanti e si spinge oltre, avvertendo e vedendo quello che non è visibile, ma che c’è, per il fatto che egli sa di non essere ciò che crede di dover essere. La sua attenzione è totale, prosegue verso quel luogo a cui lui sa di essere destinato.
Un gabbiano gli vola accanto e si posa poco distante, fissandolo e forse riconoscendone la sua naturale naturalità, come parte di quell’universo cui il gabbiano non è disgiunto, sentendo, forse, che può avvicinarsi senza temere alcun pericolo…
Appena passato, quel gabbiano sembra chiamare gli altri suoi compagni, che dal cielo gli rispondono in un frastuono di voci che si stagliano nel silenzio del mattino.
Il guerriero giunge così nel posto che conosce, quel posto giusto per cui, forse, anche la natura lo riconosce, così che ciò che quel posto esprime è solo e soltanto di quel posto, in cui il guerriero può esprimere ciò che è solo e soltanto in quel luogo.
Si ferma, si volge verso il mare e ascolta ancora quei suoni del mattino, poi, come se fosse il vento a muoverlo, si volta verso la costa scoscesa, un agave fiorito si erge diritto e lungo davanti a lui, come a voler penetrare quel cielo terso del mattino e resta immobile, come in attesa di qualcosa…
Egli non è concentrato su qualcosa, perché questo vorrebbe dire escludere parte della natura, prendendone solo una parte e lasciandone altre; piuttosto egli è attento a cogliere tutto ciò che la natura gli offre… se stessa. E se la natura può offrire se stessa e lui è parte di questa natura non può non offrire tutto se stesso. Anche se a volte sembra essere concentrato su qualcosa in particolare, proprio il fatto di esserlo gli fa vivere tutto ciò che egli sente di voler vivere non negando niente di ciò che egli è e che sente di essere. Per questo, forse, la natura lo comprende come parte integrale di sé, perché la natura è forse questo.
La sua mente è attenta a tutto ciò che sente. Ciò che sente dentro è ciò che accade fuori.
Così respira il tutto, si lascia attraversare dall’aria, dall’energia di quel mattino. Resta in piedi con le braccia distese lungo il suo corpo, lascia che l’intenzione emerga dal profondo del suo essere e… lentamente le mani si alzano come sospinte dall’aria, sembrano carezzare l’aria, poi anche i piedi si muovono… e quell’intenzione, quell’energia che era in lui diventa visibile nei suoi movimenti, viene manifestata. Così che nel movimento, egli esprime ciò che sente di essere, le sue sensazioni diventano movimento. Ciò che è dentro è ciò che è fuori. I movimenti sono lenti, quasi immobili, confusi nel quadro di quel mattino, rendono viva la Vita, partecipando a quel tutto che è ciò che siamo, godendo dell’energia di quel corpo, oltrepassando, forse, i limiti della coscienza, penetrando… l’incommensurabile, in quella che forse è la danza della Vita.
Nel movimento non c’è alcuna pausa, non si distingue alcuna posizione che sia tale. Le sue mani si muovono delicate come sfiorando qualcosa che è nell’aria, mentre la brezza del mattino lo avvolge, lo abbraccia tutto, facendo sventolare quegli indumenti che coprono un corpo delicatamente forte… asciutto, naturalmente scolpito, così naturalmente naturale che rispecchia il suo modo di.. Essere.
Quel corpo delicato e leggero come i movimenti che mostra, forte per come il movimento che viene in essere… movimenti simili ad un onda, ora penetranti per poi ritrarre, controllati attraverso il bacino, che ne imprime e ne regola il giusto equilibrio di forza e delicatezza. Così tutto il corpo diventa come un’onda, e quei movimenti sinuosi parlano di sé, di ciò che sente, di ciò che è, di quello che forse è la Vita, sì anche di quello…
La natura intorno a lui sembra affascinata e nell’incanto di ciò che sta accadendo lo accoglie dentro di sé, lasciandosi penetrare da quell’inusuale energia che egli emana. Sente di potersi muovere liberamente, di poter entrare, introdursi, in quell’innocenza naturale, pura, che è la Vita; sente di essere accettato. E in questo gioco, in questo scambio di energie, ciò che penetra si dissolve in ciò che si ritrae, così che ciò che si ritrae è già ciò che penetra: è la naturale pulsione della Vita.
Il suo corpo gode dell’ebbrezza di ciò che accade e che forse non è diverso da ciò che succede ad ognuno in ogni istante, ma che crediamo non possa esistere.
L’aria avvolge il suo volto disteso e luminoso e la brezza sembra carezzarlo, mentre le sue mani si insinuano dentro quella natura come ad esplorare l’inconoscibile, l’ignoto, per poi ritrarsi, in un gioco di alternanza, lente ma decise, sembrano parlare, raccontare del guerriero, mentre egli ascolta attento ciò che quella natura dice. E in questa compenetrazione viene in essere un’eccitazione che lui percepisce e di cui lui sembra godere. Appaiono fusi in uno, sembra, ma forse lo è davvero, essere tutto così… naturalmente naturale. Le energie si fondono insieme per cui il movimento non è più il movimento del guerriero, ma la natura che si muove e si esprime attraverso i suoi movimenti: lui è la natura, la natura è lui. Come dissolto, annullato, ciò che egli sente è solo.. pura energia.
La fine della forma lo vede ancora unito al tutto e il tutto unito a lui. Fermo, immobile, il movimento continua ad esistere, perché, forse, ogni istante è diverso dal precedente.
Adesso è rivolto al mare, le onde sembrano proseguire ciò che era accaduto e che sta ancora accadendo, mentre il sole irrompe sulla spiaggia, esplodendo nel tutto, come a consacrare l’inizio del nuovo giorno, inondando di calore e colore tutto lo spazio vuoto di quel posto, come se l’insieme fosse generato in un momento di totale orgasmica fusione, in cui esiste solo… l’essenza.
Quell’essenza naturale che il guerriero ha sempre saputo essere parte di lei, della natura, e che lui ha talvolta tradito, ma che da tempo ha compreso essere il posto giusto dove quella natura schiuderà le porte davanti a lui affinché possa goderne.
Ma solo il guerriero è in grado di entrare, varcare quel posto, muovendosi in armonia con quella natura, seguendone i ritmi e adeguandosi ad essi, come l’acqua si adegua al recipiente che lo contiene, affinché quella natura possa rivelarsi a lui, così da essere non più ciò che è stato ma… ciò che è e che esiste, altrimenti non sarebbe.
Quanto tempo era trascorso? Forse, il tempo psicologico si era fermato quando tutto aveva avuto inizio e alla fine ne risultava come un salto quantico, in cui l’inizio e la fine sono… senza tempo, e se non c’è tempo non esiste neanche l’inizio e la fine… esiste solo ciò che è.
Il guerriero appagato dall’estasi sa che quando vorrà, quando avrà piacere, potrà rientrare in quel “senza tempo”, ricevendo e donando tutto sé stesso, perché ciò che egli è non può non essere ciò che accoglie: la stessa sostanza. Egli non è diverso da ciò che penetra, da ciò che accoglie… l’incommensurabile.
Il filo rosso del destino
Wei era un uomo che, rimasto orfano di entrambi i genitori in tenera età, desiderava sposarsi e avere una grande famiglia; nonostante i suoi sforzi era giunto all'età adulta senza essere riuscito a trovare una donna che volesse diventare sua moglie.
Durante un viaggio Wei incontrò, sui gradini di un tempio, un anziano appoggiato con la schiena a un sacco che stava consultando un libro. Wei chiese all'uomo cosa stesse leggendo; l'anziano rispose di essere il Dio dei matrimoni e, dopo aver guardato il libro, disse a Wei che sua moglie ora era una bimba di tre anni e che avrebbe dovuto attendere altri quattordici anni prima di conoscerla. Wei, deluso dalla risposta, chiese cosa contenesse il sacco; l'uomo rispose che lì dentro c'era del filo rosso che serviva per legare i piedi di mariti e mogli. Quel filo è invisibile e impossibile da tagliare, per cui una volta che due persone sono legate tra loro saranno destinate a sposarsi indipendentemente dai loro comportamenti o dagli eventi che vivranno. Queste parole non convinsero Wei che, per sentirsi libero di scegliere da solo la donna da sposare, ordinò al suo servo di uccidere la bambina destinata a diventare sua moglie. Il servo pugnalò la bambina ma non la uccise: riuscì soltanto a ferirla alla testa e Wei, dopo quegli eventi, continuò la sua solita vita alla ricerca della moglie.
Quattordici anni dopo Wei, ancora celibe, conobbe una bellissima ragazza diciassettenne proveniente da una famiglia agiata e si sposò con lei. La ragazza portava sempre una pezzuola sulla fronte e Wei, dopo molti anni, le chiese per quale motivo non se la togliesse nemmeno per lavarsi. La donna, in lacrime, raccontò che quando aveva tre anni fu accoltellata da un uomo e che le rimase una cicatrice sulla fronte; per vergogna la nascondeva con la pezzuola. A quelle parole Wei, ricordandosi dell'incontro con il Dio dei matrimoni e dell'ordine che dette al suo servo, confidò alla donna di essere stato lui a tentare di ucciderla. Una volta che Wei e la moglie furono a conoscenza della storia si amarono più di prima e vissero sereni e felici.
Il Regalo
Buddha stava insegnando ad un gruppo di discepoli, quando un uomo gli si avvicinò e lo insultò,
con l’intenzione di aggredirlo. Di fronte a tutti, Buddha reagì con assoluta tranquillità, rimanendo fermo ed in silenzio.
Quando l’uomo se ne andò, uno dei discepoli, indignato da questo comportamento,
chiese a Buddha perché avesse permesso a quello straniero di maltrattarlo in quel modo.
Buddha rispose serenamente:
"Se io ti regalo un cavallo e tu non lo accetti, di chi è il cavallo?"
L’alunno, dopo aver tentennato per un istante, disse:
"Se io non lo accettassi, il cavallo continuerebbe ad essere vostro, maestro".
Buddha annuì e gli spiegò che, nonostante alcune persone decidano di perdere il loro tempo insultando,
noi possiamo scegliere di accettare tali parole o meno, proprio come faremmo con un regalo qualsiasi.
"Se lo prendi, lo accetti, altrimenti colui che insulta rimane con l’insulto tra le mani".
Non possiamo dare la colpa a chi ci insulta,
perché è nostra la decisione di accettare le sue parole invece di lasciarle sulle stesse labbra da cui sono uscite.
La favola giapponese del bambù
In un tempo lontano, due agricoltori stavano passeggiando tranquillamente tra il mercato, quando qualcosa attira la loro attenzione. In una bancarella vi erano dei semi che non avevano mai visto, così decisero di chiedere cosa fossero al venditore della bancarella.
Uno dei due uomini chiese al commerciante: “Che semi sono questi?”. “Sono semi di bambù, sono speciali e vengono dall’Oriente”, rispose il commerciante. “E perché sono così speciali?” chiese uno dei due agricoltori. “Se li acquisterai e li pianterai, saprai perché. Hanno bisogno di acqua e concime, nient’altro”.
Così entrambi gli agricoltori comprano quei semi di bambù. Una volta tornati nei loro terreni, piantarono quei semi e iniziarono ad annaffiarli e concimarli.
Ma dopo un periodo ancora non erano germogliate, a differenza di altre piante che già davano i frutti. Uno dei due agricoltori disse all’altro: “Quel vecchio mercante ci ha ingannati con i semi. Da questi semi non crescerà mai nulla”. E decise di smettere di prendersene cura.
L’altro invece continuò a coltivare i propri semi, dando loro tutta l’acqua e il concime necessari. Continuava a passare il tempo, ma i semi non germogliavano.
L’agricoltore era ormai sul punto di gettare la spugna, quando un bel giorno vide che il bambù stava finalmente crescendo. Ma non solo, l’uomo era rimasto letteralmente sorpreso per il fatto che in sole sei settimane le sue piante avevano raggiunto un’altezza di 30 metri.
Come è possibile che il bambù abbia impiegato 7 anni per germogliare e che in sole sei settimane sia riuscito a raggiungere una tale altezza?
Molto semplice: durante i 7 anni di apparente inattività, il bambù stava generando un complesso sistema di radici che gli avrebbe permesso di crescere così tanto.
I Miti greci - Alla conquista del Vello d'Oro
A quei tempi regnava nella città di Iolco in Tessaglia il re Atamante. La sua sposa Nefele era morta lasciando due bambini: Elle e Frisso.
La nuova sposa di Atamante, Ino, invasa da furore omicida, suggerì al re di sacrificare i bambini a Giove, perché fosse allontanato dalla loro terra il flagello della carestia.
Allora Nefele, che gli dei avevano trasformata in una nuvola leggera, per proteggere i suoi figli mandò loro un ariete volante dallo splendido vello d'oro. Il prodigioso animale fece salire sulla sua groppa scintillante i due bambini e li condusse in volo nel lontano Oriente.
Durante il viaggio si levò una violenta tempesta, che fece precipitare Elle nelle acque sottostanti con un volo vertiginoso. Da quel giorno quel tratto di mare si chiamò Ellesponto.
Frisso proseguì il viaggio aggrappato al vello dell'ariete che lo condusse in un paese della Colchide, alla città di Ea, in una terra mai calpestata da sandali greci.
Appena mise piede sulla terraferma, Frisso sacrificò il montone a Giove e regalò il vello d'oro al re di quella città.
- Appenderemo il prezioso dono a un robusto albero della foresta - disse il re - Alla sua guardia sarà posto un drago che lo difenderà da ogni tentativo di furto.
Passarono gli anni. A Iolco ora regnava l'ambizioso Pelia, che con la violenza aveva usurpato il trono al fratello Esone e cacciato in terre straniere il piccolo Giasone, legittimo erede del regno.
Ma Giasone, affidato dalla madre al centauro Chirone, un gigante dal corpo metà uomo e metà equino, crebbe buono e forte. Per ben venti anni Chirone gli insegnò l'arte militare, il rispetto degli dei, la giustizia, la medicina...
A vent'anni Giasone era preparato al compito cui era stato destinato: riscattare il trono usurpato al padre. Partì per Iolco. Durante il viaggio, nell'attraversare un fiume, si era tolto i sandali, ma uno gli era sfuggito dalle mani ed era stato trascinato via dalla corrente.
Arrivò perciò alla città dove regnava lo zio, calzato di una sola scarpa. Qui Pelia, ormai vecchio, regnava tranquillo, ma non aveva dimenticato che gli era stato predetto di temere l'uomo calzato con un solo sandalo. Fu così che sussultò quando seppe dell'arrivo di uno straniero, con il piede sinistro privo di calzatura. Pelia fu preso da una strana inquietudine e, simulando una falsa naturalezza, fece condurre il giovane al suo palazzo per chiedergli chi fosse e cosa l'avesse spinto fino a Iolco.
Giunto al cospetto dell'usurpatore, il giovane eroe, con fare sicuro e con voce ferma disse:
- Non sono uno straniero. Fui allontanato dalla mia città per tuo ordine, dopo che avevi preso con violenza i poteri destinati da Giove a mio padre. Il mio nome è Giasone. Sono tornato per riprendere il posto che mi spetta.
Le parole del giovane erano oneste e sagge. Ma Pelia, pensando di disfarsi del nipote, rispose prontamente:
- Giovane sconosciuto, sembri audace e forte, ma il pretendente al trono della città di Iolco deve avere un segno di riconoscimento: il vello d'oro.
Giasone conosceva la storia dell'ariete dal prezioso manto e rispose con fierezza:
- Andrò a conquistarlo e te lo porterò, così questo regno sarà mio.
Ma il vello era lontano, oltre il mare, verso oriente.
Nessuno si era mai portato in quei luoghi sconosciuti.
Giasone allora fece costruire una nave, robusta, per superare ogni tempesta, e snella, per correre veloce sulle onde. La chiamò Argo dal nome del costruttore.
Insieme a Giasone s'imbarcarono i più famosi eroi richiamati da un bando che il giovane aveva fatto diffondere in tutta la Grecia. C'erano Castore e Polluce, figli di Giove, Orfeo, il divino cantore, Ercole, il più famoso degli eroi greci, i più potenti re della Grecia e il medico Esculapio. Furono chiamati Argonauti dal nome della nave.
La nave salpa, salutata da un'immensa folla. Mentre si allontana dalla spiaggia Orfeo leva in alto il suo canto, accompagnando il ritmo dei remi che tagliano le onde azzurre del mare.
Gli Argonauti navigano per giorni e giorni, compiono brevi soste nella Magnesia, nell'isola di Lemno, sull'estrema punta del Chersoneso. Non mancano ostacoli né avventure e in un chiaro mattino approdano in un paese che si chiamava Tracia.
Qui avanza verso di loro un vecchio ridotto pelle e ossa, di nome Fineo. È costui un indovino che, avendo abusato del suo potere per rivelare agli uomini il loro avvenire, è stato condannato dagli dei a un duro supplizio. Le Arpie, mostri alati con volti di fanciulle, scendono dal cielo sottraendo al vecchio, ridotto anche alla cecità, qualsiasi cibo egli tenti di portare alla bocca. Giove gli ha predetto che solo negli Argonauti è il potere di liberarlo. Della ciurma infatti fanno parte gli alati figli del vento Borea. Questi, commossi da tanta miseria, si lanciano dietro alle Arpie e, soffiando con tutte le loro forze, le allontanano per sempre.
Fineo, grato del favore resogli, offre il suo aiuto. Svela agli Argonauti le mille insidie che ancora riserva il viaggio e soprattutto li mette in guardia di fronte al pericolo delle rupi Simplegadi. Queste rocce alte, prive di base, vagano per il mare, si urtano tra loro, balzano indietro per rincontrarsi di nuovo. Le navi che passano di lì si sfasciano contro gli scogli o vengono inghiottite dai gorghi formati dal movimento delle stesse rocce. I naviganti dell' Argo fanno tesoro dei consigli del vecchio e riprendono il viaggio.
Giunti nei pressi dell'imboccatura che dal mare Egeo introduce all'Ellesponto, odono un cupo rumore; il mare mugghia come se bollisse, ma il cielo è sereno. Gli Argonauti capiscono che sono vicini agli scogli maledetti. Allora, attenendosi alle indicazioni dell'indovino, liberano una colomba e ne osservano il volo con gli sguardi pieni di ansia: se la colomba passa attraverso le rocce senza essere schiacciata, la nave potrà navigare seguendo la rotta indicata dall'uccello; in caso contrario, bisognerà aspettare un momento più propizio.
Giasone però non dimentica di invocare Minerva che, scesa dall'Olimpo, comanda a Nettuno di lasciar passare l'Argo. E ad un tratto si leva un grido tra gli uomini dell'equipaggio. La colomba è in alto, vola libera invitando gli Argonauti a superare il difficile passo. Come una freccia la nave oltrepassa il canale un attimo prima che le rupi si cozzino ancora una volta. È finalmente in salvo!
Gli uomini si voltano per osservare le pericolose rupi ormai incagliate al fondo del mare: infatti il giorno in cui anche un solo uomo fosse riuscito a passare vivo in mezzo ad esse, le rocce avrebbero avuto le loro radici.
Gli Argonauti continuano il viaggio con animo più sereno. Scorgono da lontano le insenature del Ponto, giungono nella terra delle Amazzoni, in quella dei Calibi e finalmente vedono le cime dei monti del Caucaso.
Ed ecco le foci del fiume Fasi, meta del viaggio. Gli eroi gettano le ancore, sono ormai in Colchide alla città del re Eeta.
Giasone osserva i boschi sacri in cui si custodisce il vello d'oro e poi si dirige alla reggia del re, un grandioso palazzo circondato da un ampio giardino ornato di fregi e sculture. Fanno da cornice all'ingresso quattro fonti, opere del dio Vulcano. Versano acqua, vino, latte, olio. Giasone volge intorno lo sguardo con ammirazione, poi entra e si fa condurre alla sala del trono, dove su un seggio tempestato di pietre preziose siede maestoso il sovrano. Eeta accoglie l'eroe e i compagni con benevolenza e li invita a sedere alla sua mensa. Al suo fianco siede la figlia Medea, una maga bellissima.
Intanto tutti festeggiano gli Argonauti, chiedono notizie del viaggio e infine vogliono conoscerne lo scopo.
Giasone, con chiarezza e altrettanta audacia, spiega le ragioni che lo hanno portato in Colchide e chiede al re il permesso di conquistare il vello d'oro.
Eeta è sdegnato per l'ardire dello straniero. Ma non può negare al giovane il tentativo di compiere l'impresa: la collera degli dei si abbatterebbe su di lui e sul suo popolo se egli impedisse la conquista del preziosissimo vello. L'astuto sovrano gli dice perciò:
- Non ti posso proibire ciò che mi chiedi, ma dovrai guadagnartelo mostrando di avere un cuore intrepido. Nella mia stalla ci sono due ferocissimi tori dalle lunghe corna micidiali. Sono tanto furiosi che dalle narici mandano vampate di fuoco. Dovrai domarli, aggiogarli all'aratro e tracciare con essi dei solchi profondi, in cui seminerai i denti di drago che io stesso ti darò.
Giasone ascolta senza alcuna paura e la sua fierezza crea smarrimento nei compagni.
Il re intanto continua:
- Da questa mostruosa semina nascerà una schiera di giganti che dovrai combattere e annientare. E tutto questo in un solo giorno. Le prove sveleranno se sei un vero eroe.
Giasone valuta le difficoltà dell'impresa ma non può tirarsi indietro. Accetta che la prova venga fissata per il mattino dopo. Tutti ammirano il suo ardire, in particolare Medea, la figlia del re.
La giovane donna, colpita dalla bellezza e dal coraggio del giovane straniero, ne piange in cuor suo la misera sorte. Si sente spinta ad aiutarlo ed escogita il sistema per favorire l'eroe. A lei gli dei hanno insegnato a comporre unguenti e filtri magici. Durante la notte la maga invoca la regina degli inferi e prepara una pomata che, messa sulla pelle, ha il potere di renderla insensibile alle fiamme.
All'alba Medea sale su di un cocchio e si reca da Giasone. Il giovane è sulla spiaggia intento a celebrare sacrifici agli dei quando ella lo raggiunge. Premurosamente gli offre il farmaco magico e gli dà utili suggerimenti per difendersi dagli enormi pericoli della lotta. Giasone abbraccia la maga, esprimendole riconoscenza e gratitudine.
All'ora stabilita Giasone si reca da Eeta nel campo sacro a Marte. L'intera Colchide è presente per assistere all'insolita impresa.
Ad un cenno del re le pesanti porte delle stalle si aprono liberando i mostruosi animali. I tori giganteschi si precipitano fuori lanciando lingue di fuoco e sollevando minacciose nuvole di fumo. La folla osserva con un compiacimento quasi crudele l'eroe che scende in campo e avanza contro le bestie spaventose. I tori cozzano tra loro le corna emettendo colpi orrendi e battendo gli zoccoli in modo furioso e disordinato. Ma Giasone, senza perdersi di animo, si lancia contro di loro. Il suo corpo vigoroso, su cui ha spalmato il magico unguento, sembra insensibile alle fiamme e scatta con prontezza schivando i colpi dei mostri.
La folla tace terrorizzata. Al centro del campo s'intravede, tra il fumo e la polvere, la figura dell'uomo ché non soccombe, anzi colpisce i tori, stringe i loro colli. La lotta sembra interminabile ma infine le bestie terribili sono aggiogate.
E quando la polvere e il fumo cominciano a diradarsi, scarmigliato e lucido di sudore appare Giasone. Guida con fermezza le belve, che trascinano l'aratro d'acciaio. Gli animali arano la terra, mentre l'eroe sparge nei solchi i denti di drago che Eeta gli aveva consegnato.
Col sorgere della luna, nel campo arato, si delineano delle forme che diventano sempre più grandi e più chiare. È un esercito immane di guerrieri che viene fuori dal terreno. Giasone, seguendo ancora una volta il consiglio di Medea, scaglia nel mezzo di questi strani e misteriosi esseri un grosso sasso.
I guerrieri, come accecati, vi si gettano sopra e cominciano a combattere tra loro con furia selvaggia fino ad annientarsi l'un l'altro. Alla fine, quando tutti stramazzano al suolo sfiniti, interviene Giasone trafiggendoli con la spada.
Eeta è furibondo, ma deve concedere all'eroe il permesso di tentare la conquista del vello d'oro.
Seguito da tutti i compagni, il giovane s'inoltra nel fitto bosco. Al suo fianco con i suoi preziosi poteri è anche Medea. C'è ancora un ostacolo da superare: il vello, appeso ad un faggio, è custodito da un drago.
All'avvicinarsi dei due giovani il feroce animale comincia a sibilare in modo minaccioso. Medea intona allora un dolcissimo canto, che addormenta il drago. Poi gli spruzza negli occhi un filtro per rendergli il sonno più lungo e profondo. Giasone scavalca il corpo del mostro e finalmente può stringere tra le mani il vello splendente.
L'impresa è compiuta.
A notte alta, dopo la festa per la vittoria, mentre il palazzo del re è immerso nel sonno, gli Argonauti salpano. Si allontanano in silenzio temendo l'ira di Eeta a cui hanno sottratto il vello d'oro e la bellissima figlia che, a fianco dell'eroe, guarda con nostalgia per l'ultima volta la terra natale.
Esopo - Il Lupo e l'Airone
Un lupo aveva ingoiato un osso e andava attorno per trovare qualcuno che lo liberasse.
S’imbattè in un airone, e lo pregò di estrargli l’osso dietro compenso.
Quello cacciò la testa nella gola del lupo, tirò fuori l’osso e poi reclamò l’onorario pattuito.
Ma il lupo gli disse:
“Caro mio, non sei contento d’aver tirato fuori intera la testa dalla bocca del lupo?
E osi ancora chiedere un compenso?”.
Morale:
Il più gran compenso che si possa ottenere dai servizi resi a un malvagio
è quello di non essere ricambiato con un sopruso.
Fiaba celtica - L'Aquila e lo Scricciolo
L'aquila e lo scricciolo stavano verificando chi dei due potesse volare più alto.
Il vincitore sarebbe divenuto re degli uccelli.
Lo scricciolo partì per primo, dritto verso il cielo.
Ma l'aquila lo raggiunse, librandosi agevolmente in grandi cerchi nell'aria.
Lo scricciolo era stanco, così, appena l’aquila passò, zitto zitto si sistemò sull’ampio dorso dell’aquila.
Alla fine, l’aquila cominciò a stancarsi.
«Ma dove sei, scricciolo?», gridò.
«Sono qui», rispose lo scricciolo, «solo un po’ più in alto di te».
Fu così che lo scricciolo vinse la gara.
Un racconto giapponese - Le sei statue con i cappelli di paglia
C’erano una volta un nonno e una nonna. Il nonno, per guadagnarsi la vita fabbricava cappelli di paglia. Entrambi vivevano in povertà e una volta, a Capodanno, capitò che non avessero nemmeno i soldi per comprare i tradizionali biscotti di riso. Così il nonno decise di andare in città e vendere alcuni cappelli di paglia. Ne prese cinque e si mise in cammino. La città era lontana e per arrivare lì, il vecchio, doveva attraversare la campagna.
Finalmente raggiunse la città e passeggiando per le vie gridava: “Cappelli di paglia, cappelli di paglia! Chi vuole dei cappelli!”
La città era piena di gente che faceva le compere di Capodanno: pesce, sake, biscotti di riso e poi si affrettava ad andare a casa. Nessuno comprava i cappelli del vecchio. A Capodanno tutti restano a casa ed i cappelli di paglia servono a poco.
Per tutto il giorno il vecchio girò per la città offrendo i suoi cappelli, ma non riuscì a venderne neanche uno. Verso la fine del pomeriggio decise di rientrare a casa senza aver potuto comprare i biscotti di riso. Mentre stava uscendo dalla città si mise a nevicare.
Il vecchio era molto stanco e attraversando la campagna scorse gli Ojizousama, le statue tagliate dalla pietra che, in Giappone, rappresentano le divinità dei bambini. Ce n’erano sei e la neve cadeva sulle loro teste e scendeva sulle loro facce. Il vecchio, che aveva buon cuore, pensava che i poveri Ojizousama avessero molto freddo, così pulì dalla neve le loro teste e gli mise i cappelli che non era riuscito a vendere, bisbigliando:
“Questi sono semplicissimi cappelli di paglia, vi prego di accettarli…”
I cappelli erano solo cinque, mentre le statue erano sei, allora il nonno diede il suo cappello all’ultimo Ojizousama dicendogli:
“Questo cappello è troppo vecchio e consunto, ma ti sarà utile.”
Fatto ciò il nonno riprese la sua strada sotto la neve. Il vecchio rientrò a casa tutto coperto dalla neve. Vedendolo senza il suo cappello, la nonna gli domandò che cosa era successo e lui gli raccontò la storia dei Ojizousama:
“Non sono riuscito a vendere nessun cappello in città. Poi sulla strada di ritorno ho incontrato sei Ojizousama che stavano sotto la neve ed ho pensato che avessero molto freddo. Ecco perché gli ho dato i cappelli che avevo e poiché ne mancava uno ho dato anche il mio.”
La nonna commossa dalla bontà del marito gli disse: “Hai fatto bene perché anche se siamo poveri abbiamo una casa.”
Il nonno che tremava dal freddo sedette vicino al fuoco, mentre la nonna preparava la cena. Questa volta non avevano i biscotti di riso perché il nonno non era riuscito a vendere niente. Cenarono con un po’ di riso e verdura ed andarono a letto.
A mezzanotte il vecchio e la nonna furono svegliati da un rumore come se qualcuno stesse cantando. Dapprima le voci erano lontane, ma poco a poco s’avvicinarono alla casa cantando:
Il nonno ha dato sei cappelli agli Ojizousama
Dov’è la sua casa?
Dove abita?
Il vecchio e la nonna erano molto sorpresi sentendo questa canzone, poi sentirono “Bam!”.
S’alzarono a vedere chi fosse e aprirono la porta. Sulla soglia qualcuno aveva lasciato un mucchio di regali: riso, pesce, sakè, biscotti di riso, decorazioni per Capodanno, coperte, kimoni, e tante altre cose.
Il nonno e la nonna si guardarono attorno per cercare chi avesse fatto questi doni e videro i sei Ojizousama che si allontanavano e portavano sulle loro teste i cappelli di paglia che il nonno gli aveva regalato.
Gli Ojizousama si mostrarono riconoscenti per la bontà che il vecchio aveva dimostrato loro, portandogli tutto ciò che gli rendesse felice il Capodanno.
Fiaba tibetana - Le montagne innevate e l'uccello della felicità
Un tempo il Tibet era una Terra che faceva paura: era sempre buio, non c'era vegetazione, non c'era quasi acqua.
Chi ci viveva ricordava come una fiaba quando il Tibet non era un Paese così, e dava la colpa di tutto al fatto che l'uccello della felicità avesse abbandonato quella zona. Ora quell'uccello viveva nel territorio delle nevi perenni e c'erano tre draghi feroci che difendevano il suo nascondiglio in continuazione.
Un giorno Ming, un giovane coraggioso, decise di andarlo a riprendere, malgrado tutti i pericoli che c'erano.
Si mise in cammino ed ad un tratto si trovò di fronte un drago fiammeggiante che gli disse:
Dove vai? Come ti permetti di passare in questa zona?
Il ragazzo gli disse che andava alla ricerca dell'uccello della felicità.
Ma il drago gli rispose: Non ci riuscirai mai! Io e i miei fratelli ti annienteremo!
Diede un colpo con la coda e di colpo nacque dalla terra una foresta di rovi.
Ming la attraversò, ferendosi e graffiandosi.
All'uscita trovò un altro drago, ancora più temibile del precedente:
Non arriverai mai dove vuoi arrivare! e con un colpo di coda generò un deserto terrificante.
Ming lo attraversò, soffrendo la sete e la fame. Alla fine del deserto c'era il terzo drago, che disse:
Vedrai che così ti fermeremo! e gli diede un colpo sugli occhi!
Ming diventò cieco ed iniziò a vagare.
Ad un tratto arrivò vicino al rifugio segreto in cui era tenuto prigioniero l'uccello della felicità.
Ming sentì la sua presenza: l'uccello gli sfiorò gli occhi ridandogli la vista e guarendolo dalle sue ferite.
Ming liberò l'uccello che si alzò in volo con lui sulla groppa riportandolo in Tibet,
che da quel giorno ritornò ad essere un Paese felice.
Racconto Zen - L'illusione della paura
In un antico monastero cinese, c’era un monaco, che ogni volta che si ritirava in meditazione, vedeva un lupo inferocito che lo inseguiva. Egli non riusciva più a meditare a causa di questa visione. Aveva iniziato anche ad aver paura a prendere sonno la sera, perché ogni volta che chiudeva gli occhi era assalito da quell’animale così reale ai suoi sensi.
Così un giorno andò dal suo maestro per chiedergli consiglio, e disse: “Maestro adorato, aiutatemi. Un lupo inferocito mi perseguita. Ho molta paura, non riesco più a meditare e neanche a dormire. Cosa devo fare?".
Il Maestro rispose: “Tieni questo pennello, quando vedrai il lupo disegnagli una bella croce sul petto e vedrai che scomparirà”.
Il discepolo era un po’ titubante, ma era anche molto fiducioso nel suo venerato maestro, così si mise subito a meditare con in mano il pennello.
Quando chiuse gli occhi, dopo pochi attimi, il lupo apparve. Preso da grande forza e volontà nel vincere quella paura, quando il lupo gli saltò di sopra, prese il pennello e fece una bella croce nel suo petto e il lupo, improvvisamente scomparve.
Preso da grande gioia, il giovane monaco, andò dal suo maestro per raccontargli della buona riuscita e disse: “Maestro, avevate ragione, quando ho fatto una croce sul lupo, improvvisamente scomparve. Ho vinto la mia paura, di questo ve ne sono grato, ma vi prego, spiegatemi cosa è accaduto al lupo?”.
Il maestro sorridendo gli disse: “Hai visto il tuo petto?”.
Il discepolo chinò gli occhi sul suo corpo e vide che era segnato da una croce, la stessa fatta un attimo prima al lupo. Così egli capì che le paure e le preoccupazioni sono solo frutto dei suoi pensieri, ma non di realtà concrete.
Racconto Zen - Il sacerdote e il barcaiolo
Su una barca che attraversa un fiume c’è un sacerdote dotto in scritture sacre.
Il sacerdote chiede al vecchio barcaiolo: ”Sai il latino?”
”No” - risponde il barcaiolo.
”Senza il latino un quarto della tua vita è perso” - dice il sacerdote - “Conosci almeno la letteratura classica?”
“No”.
”Un altro quarto della tua vita è perso, perché ci sono libri bellissimi. Sai almeno leggere e scrivere?”
“No” dice il barcaiolo.
“Un altro quarto della tua vita è perso”.
In quel momento il sacerdote si accorge che la barca fa acqua e che le sue gambe sono già a mollo.
Il barcaiolo cerca di tappare la falla ma non c’è niente da fare. L’acqua continua a crescere e la barca sta per andare a fondo.
“Sai nuotare?” chiede il barcaiolo al sacerdote.
“No” risponde il sacerdote impaurito.
“Tutta la tua vita è persa”, conclude il vecchio barcaiolo.
Racconto Zen - Non concentrare la mente!
Un giorno il maestro Tōrei stava parlando dell’insegnamento buddhista a Saga, un paese sulla montagne di Kyoto.
Era pieno inverno e faceva così freddo che tutti gli ascoltatori tremavano.
Tōrei tuonò:
- Quelli di voi che si fanno spaventare dal freddo dovrebbero tornarsene alla vita mondana subito! Come potete imparare lo Zen? Perché non lo cercate nei vostri cuori? I pesci vivono nell’acqua, ma non sanno che c’è l’acqua;
gli uomini vivono nella sublime verità, ma non conoscono la verità.
Tra gli ascoltatori si trovava Nakazawa Dōni: udendo queste parole del maestro Tōrei, ottenne all’improvviso l’illuminazione.
Più tardi spiegò:
- L’insegnamento consiste nel non concentrare la mente sulle cose esterne - e aggiunse: - Ecco che cosa significa raggiungere la Buddhità nel nostro stesso corpo.
Il problema non è tanto l'avere freddo o meno. La storia ci racconta che si era in inverno e che faceva tanto freddo.
E allora? La questione non risiede nel fatto che gli ascoltatori tremino. C'è freddo, magari sei coperto poco e allora tremi. Cosa c'è di male? Nulla: anzi, il tutto è del tutto naturale.
Solo che Tōrei capisce che c'è chi, tra i monaci che lo ascoltano, "teme" il freddo. Se temi, sei ostruito, sei succube, sei ostaggio di questo o di quello, di una situazione o di un'altra, eventualmente anche di un clima. Lo stato di timore, chiude, minaccia la condizione di disponibilità, di apertura. E infatti Tōrei dice: è impossibile che voi impariate lo zen se siete in preda al timore nei confronti del freddo. È come nella storiella di quello che va a un concerto e si rovina tutto l'ascolto dubitando di non aver chiuso a chiave l'auto! Soprattutto lo stato di timore è indice spesso di una non-accettazione, di un non riconoscimento della realtà, di una mancata aderenza ad essa.
Quando è caldo, hai caldo; quando è freddo, hai freddo: cosa c'è di strano in questo? per quale motivo esserne turbati? Se uno scivola in una questione così banale...
Temere il freddo è la conseguenza di un certo uso della mente. Temere il freddo è fermare la mente su un aspetto della realtà, bloccarla, crocifiggerla: concentrarla. È del tutto naturale un coinvolgimento della mente nella realtà, è vitale un interscambio tra mente e realtà; ma se concentri la mente, se la fissi in qualche dimensione della multiforme e mutevole realtà, allora la opprimi, la releghi a un vicolo cieco, le chiudi ogni via. Non la fai pascolare nello spazio sconfinato della verità. Se suona il telefono, vado a rispondere: agisco in modo confacente a uno stimolo esterno, alla realtà che mi si presenta. Ma se non suona nessun telefono e la mia mente è in attesa bramosa dello squillo, allora la mia mente è fissata, è costretta e fuori da ogni disponibilità rispetto alla realtà: sono lì in attesa, mi passi vicino e mi chiedi che ora è e io ti mando a quel paese! Capito? Quindi la questione è essere a contatto con le cose esterne, vederle, riconoscerle, rimanere in uno stato di quieta e benevolente apertura verso di esse; se ci riesco, riesco anche ad essere libero; altrimenti ne divengo ostaggio.
Concentrare la mente su questo o su quello denota anche un particolare approccio alla realtà, che è quello di ricerca, di aspettativa, dualistico per eccellenza. Concentro la mente su questa cosa, rifuggendo qualcos'altro; temo il freddo, rincorrendo il caldo; ecc. Divido la realtà in ciò che mi piace e ciò che non gradisco. Divento un servo della contingenza, invece che un liberato in essa. È qui il senso della metafora dei pesci nell'acqua. Se ritenessi che sia auspicabile "conoscere la verità", la dovrei intendere come un oggetto, come qualcosa da qualche parte, da scovare e di cui appropriarsi. Sarei come un pesce in cerca di acqua. Un assurdo! Ma, la questione non è cercare: piuttosto è accorgersi, è vedere. Non è voltare la testa, ma aprire gli occhi. Le grandi esperienze non provengono da un processo conoscitivo, ma partecipativo, unitivo, disidentificativo, ecc.: l'amore, una bella poesia, la natura, un quadro, ...
È così che vivo la verità, è così che sono immerso in questo flusso indefinito, senza inizio e senza termine, mutevole e amorevole, silenzioso e sinfonico.
Racconto Zen - Serena contemplazione
Zengetsu, un maestro cinese della dinastia T’ang, scrisse per i suoi allievi i seguenti consigli:
Vivere nel mondo e tuttavia non stringere legami con la polvere del mondo è la linea di condotta di un vero studente di Zen.
Quando assisti alla buona azione di un altro, esortati a seguire il suo esempio. Nell’aver notizia dell’errore di un altro, raccomandati di non imitarlo.
Anche da solo in una stanza buia comportati come se avessi di fronte un nobile ospite. Esprimi i tuoi sentimenti, ma non diventare più espansivo di quanto la tua vera natura ti detti.
La povertà è il tuo tesoro. Non barattarla mai con una vita agiata.
Una persona può sembrare sciocca e tuttavia non esserlo. Può darsi che stia solo proteggendo con cura il suo discernimento.
Le virtù sono i frutti dell’autodisciplina e non cadono dal cielo da sole come la pioggia o la neve.
La modestia è il fondamento di tutte le virtù. Lascia che i tuoi vicini ti scoprano prima che tu ti sia rivelato.
Un cuore nobile non si mette mai in mostra. Le sue parole sono come gemme preziose, sfoggiate raramente e di grande valore.
Per uno studente sincero, ogni giorno è un giorno fortunato. Il tempo passa ma lui non resta mai indietro. Né la gloria né l’infamia possono commuoverlo.
Critica te stesso, non criticare mai gli altri. Non discutere di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato.
Alcune cose, benché giuste, furono considerate sbagliate per intere generazioni. Poiché è possibile che il valore del giusto sia riconosciuto dopo molti secoli, non c’è alcun bisogno di pretendere un riconoscimento immediato. Vivi con un fine e lascia i risultati alla grande legge dell’universo.
Trascorri ogni giorno in serena contemplazione.
Racconto cinese - Difetti e fiori
Un’anziana donna cinese aveva due grandi vasi, ciascuno sospeso all’estremità di un palo che lei portava
sulle spalle. Uno dei vasi aveva una crepa, mentre l’altro era perfetto, ed era sempre pieno d’acqua
alla fine della lunga camminata dal ruscello a casa, mentre quello crepato arrivava mezzo vuoto.
Per due anni interi andò avanti così, con la donna che portava a casa solo un vaso e mezzo d’acqua.
Naturalmente, il vaso perfetto era orgoglioso dei propri risultati.
Ma il povero vaso crepato si vergognava del proprio difetto, ed era avvilito di saper fare solo la metà
di ciò per cui era stato fatto.
Dopo due anni che si rendeva conto del proprio amaro fallimento, un giorno parlò alla donna lungo il cammino:
“Mi vergogno di me stesso, perché questa crepa nel mio fianco fa si che l’acqua fuoriesca lungo tutta la strada
verso la vostra casa”.
La vecchia sorrise: ” Ti sei accorto che ci sono dei fiori dalla tua parte del sentiero, ma non dalla parte
dell’altro vaso? È perché io ho sempre saputo del tuo difetto, perciò ho piantato semi di fiori dal tuo
lato del sentiero ed ogni giorno, mentre tornavamo, tu li innaffiavi.
Per due anni ho potuto raccogliere quei bei fiori per decorare la tavola.
Se tu non fossi stato come sei, non avrei avuto quelle bellezze per ingentilire la casa”.
Leggenda giapponese - Il guerriero Kumagai
Kumagai Naozane era un uomo forte, coraggioso, implacabile. In campo di battaglia sembrava guidato dai demoni.
La sua spada cadeva come folgore sui nemici, e ne faceva strage. Tutti lo ammiravano e nello stesso tempo, lo temevano. La luce dei sentimenti pietosi non illuminava l'anima del guerriero.
"Non penso che a vincere." - Confessava Kumagai, quasi con arroganza.
Portava sempre il costume bellico. Sembrava un dio crudele, scintillante di acciaio.
Nella furiosa battaglia d'Ichi-no-tani si rivelò, come sempre, condottiero di volontà durissima.
Prima che il combattimento si concludesse con una nuova vittoria dell'eroe, un armigero che portava sul costume fulgido di guerra un lungo ramo fiorito, affrontò Kumagai.
"Lo sai, sciocco, chi è l'uomo con cui vuoi misurarti? L'infallibilità della mia spada non può concederti illusioni."
"Non ho illusioni" - disse, con voce limpida e dolce, il combattente dal ramo fiorito spinse il suo puledro bianco contro il focoso cavallo nemico.
L'impeto della lotta gettò a terra i due uomini. Kumagai ebbe presto il sopravvento. Prima di finire l'avversario, tolse a questi l'elmo. Un puro volto d'angelo lo lasciò perplesso.
"Chi sei, ragazzo?"
"Non ha importanza. Uccidimi e sappi che non ti porto rancore. Budda dice: chi giunge a me con l'anima bianca, avrà il premio".
"Di chi sei figlio?"
"Sono figlio di Tsunemori, consigliere capo dei palazzi imperiali. Ho sedici anni, amo la musica e la poesia.
Da qualche giorno ho finito di scrivere un poema in cui, presagendo la fine, mi accommiato dalla Terra."
Per la prima volta Kumagai, il guerriero implacabile, il crudo eroe, provò compassione per il nemico.
Anche lui aveva un figlio di sedici anni. E nella mattina, il suo Kojiro, era stato ferito in combattimento.
"Desidererei salvarti ragazzo" - disse dopo qualche attimo di meditazione. - "Fuggi..."
"No, un guerriero, anche se è giovane, anche se potrebbe aspettarsi molti doni dall'esistenza, non fugge.
Mi hai sconfitto devi uccidermi."
Kumagai pensò che se avesse liberato un simile avversario, la sua fama di guerriero implacabile avrebbe avuto una grave scossa... Poi, il giovane, fuggendo si sarebbe certamente imbattuto in altri nemici che lo avrebbero ucciso senza preoccuparsi, magari, di rendere gli onori funebri alle sue spoglie.
"Fino al mio ultimo giorno di vita" - promise infine Kumagai al fierissimo ragazzo - "pregherò per l'anima tua."
A denti stretti, trattenendo le lacrime, il guerriero famoso, con un colpo di sciabola, troncò la testa allo splendido, fierissimo adolescente. Finita la battaglia fece consegnare alla madre e al padre il corpo del giovanissimo eroe.
Ma il gesto pietoso non placò il suo dolore.
Pensava continuamente all' avversario sedicenne, alla tenera pianticella così presto spezzata e, di nascosto, nelle lunghe notti insonni, piangeva.
Vedeva, di continuo, dinanzi a sè, il volto angelico del bellissimo giovinetto, riudiva la sua voce gentile.
Fece il voto di non uccidere più nessuno, di non portar più armi.
Si ritirò nel tempio di Kurodani, a Kyoto. Trascorreva le sue giornate pregando per l'eroico ragazzo, meditando le sublimi parole di Budda:
Chi fa soffrire le creature non è degno dell'eternità felice.
Solo la misericordia che sboccia nell'animo generoso apre all'uomo le porte sfavillanti dei Cieli.
Fiaba indiana - La creazione degli animali
C'era una volta Napi, che era l'aiutante del Sole: il Sole riscaldava la Terra mentre Napi faceva tutti i lavori di manutenzione.
Un giorno Napi aveva terminato presto i suoi lavori, e dato che non era abituato a tenere le mani ferme, prese un blocco di argilla e cominciò a modellare con un blocco di argilla. Una dopo l'altra fece le figurine di tutti gli animali della Terra. Era molto soddisfatto del suo lavoro: soffiò sopra ogni figurina, dando a ciascun animale un nome e un luogo da popolare sulla Terra.
Era rimasto un piccolo blocchetto di argilla.
Napi lo pasticciò un po', poi fece un'altra figurina e disse: Ti chiamerai uomo, ed abiterai tra i lupi.
Napi tornò al suo lavoro, ma un giorno arrivarono gli animali a protestare: il bisonte non riusciva a vivere in montagna perché era troppo ripida, le capre della prateria non amavano vivere nell'acqua, la tigre non si adattava vicino al mare e così via.
Allora Napi ridiede a tutti nuove abitazioni, e questa volta furono tutti soddisfatti. Tutti, tranne l'uomo, che vaga dappertutto per trovare un luogo che lo soddisfi.
Libertà dalle opinioni - Un racconto di Siddhartha Gautama
Un giorno un re riunì alcuni ciechi e propose loro di toccare un elefante per constatare come fosse fatto.
Alcuni afferrarono la proboscide e dissero: "Abbiamo capito: l'elefante è simile a un timone ricurvo".
Altri tastarono gli orecchi e dichiararono: "È simile a un grosso ventaglio".
Quelli che avevano toccato una zanna dissero: "Assomiglia a un pestello".
Quelli che avevano accarezzato la testa dissero: "Assomiglia a un monticello".
Quelli che avevano tastato il fianco dichiararono: "È simile a un muro".
Quelli che avevano toccato una gamba dissero: "È simile a un albero".
Quelli che avevano preso la coda dissero: "Assomiglia a una corda".
Ognuno era convinto della propria opinione. E, a poco a poco, la loro discussione divenne una rissa.
Il re si mise a ridere e commentò:
"Questi ciechi discutono e altercano.
Il corpo dell'elefante è naturalmente unico,
e sono solo le differenti percezioni che hanno provocato le loro diverse valutazioni e i loro errori".
Il serpente ingrato
Favola popolare nella Repubblica degli Udmurti (o Udmurzia), situata tra i fiumi Kama e Vjatka e abitata dai discendenti delle popolazioni finniche della Russia del centro-nord, che costituirono nel XIV secolo un principato autonomo sotto i Mongoli-Tatari, poi conquistato e colonizzato dalla Russia nel XVI secolo.
In una giornata di tardo autunno (faceva molto freddo, i corsi d’acqua erano già ghiacciati) un cacciatore si senti chiamare:
Buon uomo, salvami! La mia coda si è attaccata al ghiaccio.
Attraversando un ruscello, improvvisamente ghiacciatosi, un serpente era rimasto prigioniero.
Il cacciatore accorse, spaccò il ghiaccio col calcio del fucile e liberò il rettile intirizzito:
Scaldami, ti prego, o morirò – tornò a pregare il serpente con voce melliflua.
Fiducioso, l’uomo prese il serpente e se lo mise sotto la giubba. Quando la bestia tornò in sé sibilò:
Grazie per avermi salvato la vita, ma, purtroppo, dovrò morderti. Mi hanno sempre insegnato che al bene si risponde col male.
Aspetta un momento, serpente – rispose l’uomo – ti hanno informato male: a me hanno sempre detto che il bene va ricambiato con altrettanto bene. Non sei persuaso? Chiediamo al primo che passa, uomo o animale che sia. E vedremo chi di noi due ha ragione.
Il serpente fu d’accordo e si arrotolò dentro il giubbotto, sul petto del cacciatore.
Continuarono la loro strada. Incontrarono una mucca e la interrogarono. Essa, dopo averli ascoltati, rispose:
Al bene bisogna rispondere col bene. Il mio padrone mi dà il fieno e io gli do il latte.
Come vedi, devi lasciarmi andare – fece notare il cacciatore al serpente.
Non è detto – replicò il rettile – la mucca è una grossa bestia stupida; chiediamo a qualcun altro.
Strada facendo, incontrarono il cavallo, che però fu d’accordo col cacciatore e con la mucca:
Il mio padrone mi dà la biada e io gli tiro il carro.
Ma anche questa volta il serpente rimase della sua idea:
La mucca e il cavallo sono animali domestici e quindi stanno sempre dalla parte dell’uomo; proviamo a sentire che cosa ne pensano gli animali della selva.
Stavano appunto attraversando un fitto bosco, ed ecco scorsero, arrampicato su un albero, un gatto selvatico.
Giudica tu chi di noi due ha ragione – lo interpellò il serpente – Quest’uomo mi ha salvato la vita e io lo devo per forza mordere, sono o non sono un serpente? Dicci tu in che modo bisogna contraccambiare il bene.
Sono troppo vecchio e non ci sento bene. Fatti più vicino – rispose gentilmente il gatto.
Il serpente ripetè la domanda più vicino all’orecchio del gatto. Fu allora che questi, all’improvviso, lo strinse tra le unghie e lo soffocò.
Il cacciatore respirò di sollievo, l’aveva scampata bella! Si mise il gatto in spalla e tornò a casa. Da allora l’uomo e il gatto vivono insieme, amici.
Il leone e la volpe - Fiaba indiana
C'era una volta in una foresta profonda un leone, che terrorizzava tutti gli animali perché li uccideva non per fame ma per fare loro del male. Gli animali, stanchi della situazione, si riunirono per vedere se riuscivano a fare qualcosa per cambiare il tutto. Andarono dal leone, gli si inchinarono e gli dissero:
"O potente leone, tu ci stai uccidendo tutti indiscriminatamente. Ti proponiamo una cosa: giornalmente ti manderemo uno di noi a scelta, ma dovrai lasciare in pace tutti gli altri!"
Il leone accettò.
Per primo toccò all'elefante; poi ad una scimmia; il terzo giorno fu il turno della volpe. La volpe arrivò di fronte al leone in ritardo, dicendogli:
"Sarei arrivata prima, ma l'altro leone della foresta mi ha trattenuto. Scusami per il ritardo."
Il leone dimenticò il suo appetito e si adirò:
"Come, c'e un altro leone nella foresta?"
"Sì, mio sovrano e mi ha detto di dirti che appena ti incontra ti fa a pezzi!"
Il leone decise di andare a cercarlo:
"Dimmi dov'è!" - chiese alla volpe.
La volpe lo accompagnò fino ad una radura dove c'era un profondissimo pozzo e poi gli disse, indicandogli il pozzo:
"E' qui dentro!"
Il leone guardò nel pozzo e vide un leone cattivo che lo guardava: gli si buttò contro... affogando miseramente.
Fu così che gli animali della foresta furono salvati dalla piccola volpe.
Yin e Yang - Leggenda cinese
Chang-E e suo marito Hou Yi, il prodigioso arciere,
vivevano durante il regno del leggendario imperatore Yao (2000 a.C. circa).
Hou Yi era un valente membro della Guardia Imperiale che maneggiava un arco magico e scoccava frecce magiche.
Un giorno nel cielo apparvero dieci soli.
La gente sulla terra non riusciva più sopportare il caldo e la siccità che ormai continuavano da diversi anni.
L’imperatore decise allora di chiamare Hou Yi ordinandogli di tirare ai soli in soprannumero
per eliminarli dal cielo e soccorrere così la popolazione.
Facendo uso della sua abilità, Hou Yi ne abbattè nove lasciandone solo uno.
La sua fama si diffuse, allora, fino giungere alla Regina Madre d’Occidente (Xi Wang Mu) nei lontani Monti Kunlun.
Essa lo convocò al suo palazzo per ricompensarlo con la pillola dell’immortalità, ma avvertendolo così:
"Non devi mangiare la pillola immediatamente. Prima devi prepararti per 12 mesi con la preghiera e il digiuno".
Essendo un uomo diligente, egli prese a cuore il consiglio e iniziò i preparativi nascondendo,
prima di tutto, a casa sua la pillola. Sfortunatamente fu chiamato d’improvviso per una missione urgente.
In sua assenza, la moglie Chang-E notò una luce fioca e un dolce odore emanare da un angolo della stanza.
Una volta presa la pillola nella mano, non riuscì a trattenersi dall’assaggiarla.
Nel momento in cui la ingoiò la legge di gravità perse il suo potere su di lei.
Poteva volare! Non molto tempo dopo sentì suo marito ritornare e terrorizzata volò fuori della finestra.
Arco e frecce in mano, Hou Yi la inseguì per mezzo cielo, ma un forte vento lo riportò a casa.
Chang-E volò dritta sulla Luna, ma quando arrivò, ansimava così forte per lo sforzo compiuto,
che sputò l’involucro della pillola, la quale si tramutò istantaneamente in un coniglio di giada,
mentre lei divenne un rospo a tre zampe.
Da allora Chang-E vive sulla luna respingendo le frecce magiche che il marito le tira.
Hou Yi si costruì un palazzo sul sole ed essi si vedono il quindicesimo giorno di ogni mese.
Chang-E e Hou Yi, simboli, rispettivamente della luna e del sole,
sono divenuti espressione di yin e yang,
negativo e positivo,
buio e luce,
femminile e maschile,
ossia della dualità che governa l’universo.
I tre ostacoli
Un giorno un Maestro accolse tre candidati che volevano diventare suoi discepoli.
Al primo incontro il Maestro iniziò a comportarsi in modo eccentrico a tavola,
facendo discorsi assurdi e avendo atteggiamenti strani.
Disse anche talune parolacce e mangiò il suo cibo con le mani,
asciugandosi la bocca al polsino della camicia.
Uno di questi tre discepoli se ne andò, scandalizzato di questo atteggiamento.
Il secondo fa avvisato dai discepoli anziani (istruiti così dal Maestro) che questi era un truffatore,
che si stavano organizzando per fargliela pagare e che lui doveva stare ben attento a fidarsi di un uomo così.
Anche il secondo uscì dal gruppo. Al terzo il Maestro proibì categoricamente
di prendere la parola ogni volta che la chiedeva e di porre qualsiasi tipo di domande.
Anche il terzo se ne andò, sdegnato ed offeso.
Quando il Maestro fu solo con i suoi allievi disse:
“Il comportamento di coloro che se ne sono andati illustra tre validi concetti.
Il primo “non giudicare a prima vista”.
Il secondo “non giudicare cose di grande importanza da ciò che dicono gli altri”.
Il terzo “non fare della tua percezione di stima ed apprezzamento altrui il metro per il tuo giudizio su di loro.”
La meravigliosa arte del gatto - Vincere senza uccidere
Tempo fa, nel mio villaggio viveva un gatto che passava le sue giornate a dormire.
Non c'era niente che lasciasse supporre la benchè minima forza spirituale in lui.
Era sempre là, sdraiato come un pezzo di legno.
Nessuno l'aveva mai visto prendere un topo.
Ma dove lui dormiva e viveva, nei dintorni, non c'erano topi.
Un giorno andai da lui e gli chiesi come si doveva interpretare questo fatto:
non vi fu alcuna risposta.
Per tre volte ancora gli posi la stessa domanda:
egli continuò a tacere, non perché non voleva rispondere,
ma perché, con tutta evidenza, non sapeva cosa dire.
Fu così che compresi che "Colui che sa qualcosa, non la conosce".
Quel gatto aveva dimenticato sé stesso,
ed allo stesso modo tutte le cose attorno a lui:
era diventato "nulla", avendo raggiunto il più Alto grado di non-intenzionalità.
Egli aveva trovato, senza alcun dubbio,
la Divina Via del Guerriero:
Vincere senza uccidere.
La Virgola
C’era una volta una virgola seccata dalla poca considerazione in cui tutti la tenevano.
Perfino i bambini delle elementari si facevano beffe di lei.
Che cos’è una virgola, dopo tutto? Nei giornali nessuno la usa più. La buttano, a casaccio.
Un giorno la virgola si ribellò.
Il Presidente scrisse un breve appunto dopo un lungo colloquio con il Presidente avversario:
“Pace, impossibile lanciare i missili”
e lo passò frettolosamente al suo generale.
In quel momento la piccola, trascurata virgola mise in atto il suo piano e si spostò.
Si spostò solo di una parola, appena un saltino.
Quello che il generale lesse fu:
“Pace impossibile, lanciare i missili”.
E scoppiò la Guerra Mondiale.
Bisogna fare attenzione alle piccole cose. Sono il seme di quelle grandi.
La rana del pozzo - Racconto cinese
Una rana che viveva in un pozzo poco profondo disse un giorno alla tartaruga del Mar Orientale:
“Come sono felice! Esco dal pozzo, mi riposo sui mattoni sbrecciati,
nuoto nell’acqua, con le ascelle sommerse e il muso in superficie.
Pesto il fango, con zampe appena immerse.
Quanto ai gamberi, granchi e girini, nessuno può paragonarsi a me.
Per di più, sono l’unica a signoreggiare questo pozzo, entrandovi ed uscendovi a piacere.
Sono davvero al colmo della gioia! Perché non venite spesso qui a divertirvi?”
Mentre la tartaruga si apprestava ad entrare con la zampa sinistra nel pozzo,
il ginocchio destro si trovò subito ostacolato. La tartaruga ritirò a stento la zampa
e si mise a parlare del mare alla rana:
“La vastità del mare non può essere misurata in migliaia di chilometri
nè la sua profondità non può essere calcolata in migliaia di metri:
All’epoca di Yi, ci furono nove inondazioni in dieci anni, ma l’acqua del mare non è mai aumentata,
mentre all’epoca di Tang, ci furono sette siccità in otto anni, ma l’acqua del mare non è mai diminuita.
La quantità dell’acqua del mare non muta col tempo, nè con le siccità ne con le inondazioni.
Che gioia vivere nel Mare orientale!”
Dopo averla ascoltata, la rana si sentì sbalordita e repressa, come avesse perduto l’anima.
(Dedicato a coloro che si ritengono grandi talenti, ma che hanno in realtà scarse conoscenze).
Il maestro e lo scorpione - Racconto zen
Un maestro zen vide uno scorpione che stava annegando e decise di aiutarlo e sollevarlo dall’acqua.
Ma, quando lo fece, lo scorpione sentendosi minacciato lo punse.
Sentendo il colpo secco della puntura, il maestro mollò la presa e lo scorpione cadde ancora in acqua.
Ancora una volta il monaco lo sollevò ed ancora una volta lo scorpione lo punse.
Un discepolo dopo aver osservato la scena, interrogò il maestro sul perché della sua ostinazione.
Il maestro rispose così:
“La natura dello scorpione è di pungere,
ma questo non modificherà la mia che è quella di prestargli soccorso e di aiutare.”
Detto questo, il maestro ragionò sul da farsi e con l’aiuto di una foglia riuscì a salvare lo scorpione
senza essere nuovamente punto e continuò rivolto al suo discepolo:
“Non cambiare la tua natura in risposta al male che ti viene inferto, sii solo accorto.
Spesso chi aiuti non ti sarà grato, ma non per questo devi rinunciare all’amore e alla compassione che sono in te.
Alcuni inseguono la felicità, altri la raggiungono donandola.
Occupati solo della tua coscienza e non di ciò che la gente dice di te,
perché solo la tua coscienza è ciò che tu realmente sei,
la reputazione è ciò che gli altri credono tu sia.”
Il velo fatato - Fiaba giapponese
C'era una volta un pescatore che viveva solo in una capanna vicino al mare.
La sua vita scorreva lenta e monotona, ma egli non se ne lamentava e il suo animo era sereno e soddisfatto.
Un giorno, come al solito, s'era recato con la sua barca in un bellissimo posto dove, oltre a una ricca pesca, poteva deliziare il suo sguardo ammirando le strane sculture delle rocce e i colori cangianti del cielo e del mare che si mescolavano formando un'unica tinta all'orizzonte.
Ad un tratto un intenso e soave profumo colpì le sue narici. Cercò di capire quale potesse essere l'origine
del misterioso aroma, ma non vi riuscì. Incuriosito, seguì la scia del profumo e si diresse remando con vigore verso la spiaggia. Giunse ai margini del bosco che costeggiava la riva, scese dalla barca e s'incamminò lungo un sentiero, sempre alla ricerca della fonte odorosa.
Quando il profumo divenne più forte, il pescatore alzò lo sguardo e vide, appoggiato sui rami di un pino, uno splendido velo. Era stupendo! L'uomo si arrampicò sull'albero e lo prese delicatamente. Lo annusò e si sentì stordito: aveva il profumo penetrante dei fiori e la fragranza di un mattino di primavera. Depose il velo sull'erba per osservarlo meglio. Era bello come non ne aveva mai visti prima: leggero e delicato come una tela di ragno, intessuto di raggi di sole frammisti a raggi di luna, tra i quali splendevano minuscole stelle lucenti.
Il pescatore lo piegò con cura e si stava avviando verso la barca, desideroso di andare a casa per mettere al sicuro quell'oggetto tanto prezioso.
All'improvviso dal folto del bosco apparve una deliziosa fanciulla.
Buon uomo, quello è mio! Quel velo che hai tra le mani appartiene alle ninfe celesti. Ti prego, restituiscimelo - gli disse con dolcezza.
L'uomo la guardò fissamente e poi le rispose:
Allora è veramente un velo prezioso! Sarei proprio sciocco a ridartelo…
A quel punto la fanciulla cominciò a piangere; le lacrime scendevano copiose sul suo splendido viso. L'uomo, guardandola estasiato, non potette fare a meno di commuoversi.
Ti prego, ridammelo, altrimenti non potrò più tornare dalle mie sorelle!
insistette la ninfa con voce di pianto.
Te lo restituirò, se resterai quaggiù con me a ballare le meravigliose danze del cielo
promise il pescatore che si era subito invaghito della bellissima donna.
La ninfa assicurò che sarebbe rimasta a danzare per lui, ma prima doveva restituirle il velo. L'uomo non voleva, temendo che lei se ne sarebbe andata via.
Le ninfe celesti non possono dire bugie - lo rassicurò la giovane.
Ho promesso che danzerò per te e così sarà. Ma senza il mio velo non posso far nulla.
Il pescatore si convinse e restituì il velo alla divina fanciulla, che iniziò subito una danza meravigliosa. Le sue braccia e il suo corpo disegnavano nell'aria eleganti movenze, i piedi sfioravano leggeri la terra. L'uomo, incantato dall'eccezionale spettacolo dato in suo onore, si sentiva immensamente lusingato.
Poi notò che a poco a poco, mentre volteggiava leggera, la ninfa cominciava a sollevarsi nell'aria. Il velo si alzò attorno a lei, come sostenuto da invisibili mani, e dal cielo piovvero magnifici fiori di tutti i colori. Il pescatore vide la ninfa salire sempre più in alto, su su fino a raggiungere la cima del sacro monte Fuji. Capì che stava andando via per sempre e volle allungare le braccia nel vano tentativo di fermarla. Ma uno strano torpore s'impadronì del suo corpo ed egli non riuscì a fare un gesto, né a dire una parola…
Intanto la ninfa spariva nella nebbia che avvolgeva le pendici del monte, oltre le candide nevi delle sue vette.
Una grande serenità invase il cuore dell'uomo che in quel momento si scosse. Si chiedeva meravigliato come mai si fosse addormentato in quel luogo e poi si avviò tranquillo verso la sua barca.
Ma il profumo dei fiori caduti dal cielo gli riportò alla mente il volto della donna stupenda che aveva danzato per lui sotto gli alberi del bosco, proprio lì vicino alla spiaggia...
Racconto Zen
Un maestro spirituale che predicava continuamente l’importanza di staccarsi dalle cose materiali,
venne invitato assieme ai suoi discepoli a una fiera dell’artigianato,
con oggetti provenienti da tutti i continenti.
Entrato nel primo padiglione, il maestro ci rimase il triplo del tempo impiegato
dagli altri per guardare gli oggetti esposti.
Stupiti, i discepoli tornarono indietro per capire perché ci mettesse tanto e lo trovarono
che ammirava incantato tutti gli oggetti esposti, uno per uno.
“Maestro”, dissero i discepoli, “tu che parli tanto di spiritualità e di distacco,
come mai ti sei fermato tanto davanti a questi oggetti?”.
Sorridendo, il maestro li guardò negli occhi e rispose:
“Cari discepoli, avete ragione. Il fatto è che sono veramente stupefatto
dal vedere la quantità di cose materiali che non mi servono per essere felice”.
La Vigna - di Cesare Pavese
Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incedersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica. Sotto le viti la terra rossa è dissodata, le foglie nascondono tesori, e di là dalle foglie sta il cielo.
Tutto ciò è familiare e remoto, infantile a dirla breve, ma scuote ogni volta, quasi fosse un mondo.
La visione s'accompagna al sospetto che queste non siano se non le quinte di una scena favolosa in attesa di un evento che né il ricordo né la fantasia conoscono. Qualcosa di inaudito è accaduto o accadrà su questo teatro.
Solamente un ragazzo la conosce davvero; sono passati gli anni, ma davanti alla vigna l'uomo adulto contemplandola ritrova il ragazzo. Ma nulla è veramente accaduto e il ragazzo non sapeva di attendere ciò che adesso sfugge anche al ricordo. E ciò che non accadde al principio non può accadere mai più.
Se non forse sia stata proprio questa immobilità a incantare la vigna. Un sentiero l'attraversa all'insù, dimezzando i filari e tagliando una porta sul cielo vicino. Il ragazzo saliva per questi sentieri, vi saliva e non pensava a ricordare; non sapeva che l'attimo sarebbe durato come un germe e che un'ansia di afferrarlo e conoscerlo a fondo l'avrebbe in avvenire dilatato oltre il tempo. Forse quest'attimo era fatto di nulla, ma stava proprio in questo il suo avvenire. Un semplice e profondo nulla, non ricordato perché non ne valeva la pena, disteso nei giorni e poi perduto, riaffiora davanti al sentiero, alla vigna, e poi si scopre infantile, di là dalle cose e dal tempo, com'era allora che il tempo per il ragazzo non esisteva. E allora qualcosa è davvero accaduto. E' accaduto un istante fa, è l'istante stesso: l'uomo e il ragazzo s'incontrano e sanno e si dicono che il tempo è sfumato.
L'uomo sa queste cose contemplando la vigna. E tutto l'accumulo, la lenta ricchezza di ricordi d'ogni sorta, non è nulla di fronte alla certezza di quest'estasi immemoriale. Ci sono cieli e piante, e stagioni e ritorni, ritrovamenti e dolcezze, ma questo è soltanto passato che la vita riplasma come giochi di nubi. La vigna è fatta anche di questo, un miele dell'anima, e qualcosa nel suo orizzonte apre plausibili vedute di nostalgia e speranza. Insoliti eventi vi possono accadere che la sola fantasia suscita, ma non l'evento che soggiace a tutti quanti e che tutti quanti abolisce: la scomparsa del tempo. Questo non accade, è: anzi è la vigna stessa.
E non accade nulla, perché nulla può accadere che sia più vasto di questa presenza. Non occorre nemmeno fermarsi davanti alla vigna e riconoscerne i tratti familiari e inauditi. Basta l'attimo dell'incontro.
Una fiaba cinese - Il cavallo e il fiume
Un cavallino viveva nella stalla con la madre e non era mai uscito di casa, né si era mai allontanato dal suo fianco protettivo.
Un giorno la madre gli disse:
"E' ora che tu esca e che impari a fare piccole commissioni per me.
Porta questo sacchetto di grano al mulino!"
Con il sacco sulla groppa, contento di rendersi utile, il puledro si mise a galoppare verso il mulino.
Ma dopo un po' incontrò sul suo cammino un fiume gonfio d'acqua che fluiva gorgogliando.
"Che cosa devo fare? Potrò attraversare?" Si fermò incerto sulla riva.
Non sapeva a chi chiedere consiglio.
Si guardò intorno e vide un vecchio bue che brucava lì accanto.
Il cavallino si avvicinò e gli chiese: "Buongiorno, posso attraversare il fiume?"
"Certo, l'acqua non è profonda, mi arriva appena a ginocchio, vai tranquillo".
Il cavallino si mise a galoppare verso il fiume, ma quando stava proprio sulla riva in procinto di attraversare, uno scoiattolo gli si avvicinò saltellando e gli disse tutto agitato: "Non passare, non passare! È pericoloso, rischi di annegare!"
"Ma il fiume è così profondo?" Chiese il cavallino confuso.
"Certo, un amico ieri è annegato" raccontò lo scoiattolo con voce mesta.
Il cavallino non sapeva più a chi credere e decise di tornare a casa per chiedere consiglio alla madre.
"Sono tornato perché l'acqua è molto profonda" disse imbarazzato
"non posso attraversare il fiume".
"Sei sicuro? Io penso invece che l'acqua sia poco profonda"replicò la madre.
"E' quello che mi ha detto il vecchio bue, ma lo scoiattolo insiste nel dire che il fiume è pericoloso e che ieri è annegato un suo amico".
"Allora l'acqua è profonda o poco profonda? Prova a pensarci con la tua testa".
"Veramente non ci ho pensato".
"Figlio mio, non devi ascoltare i consigli senza riflettere con la tua testa.
Puoi arrivarci da solo. Il bue è grande e grosso e pensa naturalmente che il fiume sia poco profondo, mentre lo scoiattolo è così piccolo che può annegare anche in una pozzanghera e pensa che sia molto profondo".
Dopo aver ascoltato le parole della madre, il cavallino si mise a galoppare verso il fiume sicuro di sé.
Quando lo scoiattolo lo vide con le zampe ormai dentro il fiume gli gridò:
"Allora hai deciso di annegare?"
"Voglio provare ad attraversare".
E il cavallino scoprì che l'acqua del fiume non era né poco profonda come aveva detto il bue,
né troppo profonda come aveva detto lo scoiattolo.
Il serpente buddista
Un Bodhisattva ebbe l'infelice idea di convertire un feroce e spietato serpente ai principi
nonviolenti e compassionevoli del Buddismo.
Quale fu lo stupore del Bodhisattva quando, appena un anno dopo, lo incontrò di nuovo.
Irriconoscibile. Pieno di graffi, tagli, segnato dalle percosse ...
Il sant'uomo, sbigottito, gli chiese cosa fosse accaduto.
Il serpente rispose che dal momento stesso in cui era divenuto buono aveva perso il rispetto di tutti,
nessuno lo temeva e chiunque, bambini compresi, lo malmenavano senza il benché minimo rimorso.
Nessuna paura? Bell'affare!
In cambio della sua silente affettuosità, della propria premurosa benevolenza, aveva ricevuto solo disprezzo.
A quel punto il Bodhisattva strizzò gli occhi perplesso, ma sorrise.
Si rese conto di non esser riuscito a spiegar nulla del Buddismo,
men che meno di nulla riguardo la "retta condotta" di vita.
Rincuorò, quindi, la malcapitata belva puntualizzando che
per rinunciare agli sconsiderati appigli dell'ego, ai suoi attaccamenti,
nonché all'illusione d'un intramontabile sé, non avrebbe dovuto affatto immolarsi.
Gli chiarì che, semmai, il miglior sacrificio sarebbe stato quello di perseguire l'equilibrio.
E che l'atteggiamento eccessivamente bonario – l'esporsi, cioè, alla gogna – sarebbe equivalso solo a risvegliare le tendenze negative già presenti, quantunque assopite, negli altri.
Il feroce serpente si guardò intorno. Aveva afferrato subito la lezione.
Compassione non implica necessariamente il dover subire, sempre e comunque, ad oltranza.
Benevolenza non comporta l'esser costretti a sopportare i peggiori soprusi.
Amorevolezza non richiede, inevitabilmente, il proprio sacrificio.
Su la testa, si disse: "Ammonirò chi tenterà d'annientarmi dimostrandogli,
senza tentennamenti, a quali pericoli incorre ...
rinuncerò agli estremismi, ma verità e fermezza saranno le mie nuove guide"!
Il ragazzo con un bruttissimo carattere
C'era una volta un ragazzo con un bruttissimo carattere.
Suo padre gli diede un sacchetto di chiodi e gli disse di piantarne uno sul muro del giardino
ogni volta che avrebbe perso la pazienza e avrebbe litigato con qualcuno.
Il primo giorno ne piantò 37 nel muro.
Le settimane successive, imparò a controllarsi, ed il numero di chiodi piantati
diminuì giorno dopo giorno: aveva scoperto che era più facile controllarsi che piantare chiodi.
Infine, arrivò un giorno in cui il ragazzo non piantò nessun chiodo sul muro.
Allora andò da suo padre e gli disse che quel giorno non aveva piantato nessun chiodo.
Suo padre gli disse allora di togliere un chiodo dal muro per ogni giorno in cui
non avesse mai perso la pazienza.
I giorni passarono e infine il giovane poté dire a suo padre che aveva levato tutti i chiodi dal muro.
Il padre condusse il figlio davanti al muro e gli disse:
"Figlio mio, ti sei comportato bene, ma guarda tutti i buchi che ci sono sul muro.
Non sarà mai come prima! Quando litighi con qualcuno e gli dici qualcosa di cattivo,
gli lasci una ferita come questa. Puoi piantare un coltello in un uomo e poi tirarglielo via,
ma gli resterà sempre una ferita. Poco importa quante volte ti scuserai, la ferita resterà."
Una ferita verbale fa male tanto quanto una fisica.
Il congresso dei gatti d'arti marziali
Duecento anni fa, in Giappone, prima dell'era di Meiji, un maestro di Kendo, Shoken, era importunato da un grosso topo nella sua casa. La versione della storia è quella narrata dal grande Maestro Zen Taisen Deshimaru Roshi.
Tutte le notti, un grosso topo, penetrava nella casa del maestro Shoken impedendogli di dormire.
Era obbligato a riposare durante il giorno. S'accordò allora con un amico che allevava gatti, un ammaestratore di gatti. Shoken gli domandò: "Prestami il più forte dei tuoi gatti".
L'altro gli prestò un gatto di grondaia molto rapido ed abile nel catturare i topi;
le sue unghie erano forti ed i suoi salti potenti!
Ma quando entrò nell'alloggio, il topo risultò essere più forte ed il gatto fuggì.
Questo topo era davvero molto misterioso.
Shoken prese in prestito un secondo gatto, dal color fulvo, dotato di un Ki molto forte,
una forte energia ed uno spirito combattivo. Questo gatto entrò e combatté,
ma il topo ebbe la meglio ed anche il secondo gatto fuggì.
Fu provato un terzo gatto, bianco e nero, ma anche questo non poté vincere.
Shoken prese allora in prestito un quarto gatto, nero, vecchio, assai intelligente,
ma molto meno forte del gatto di grondaia e del gatto tigrato. Entrò, il topo lo guardò e s'avvicinò.
Il gatto si sedette, molto calmo, senza muoversi. Il topo iniziò allora a dubitare.
Si avvicinò ancora, leggermente impaurito, e repentinamente il gatto gli afferò il collo,
lo uccise e lo trascinò fuori dalla casa.
Shoken andò quindi a congratularsi con l'amico e gli disse:
"Ho spesso inseguito questo topo con la mia spada di legno, ma è lui che mi ha graffiato.
Perché questo gatto nero ha potuto vincerlo?".
L'amico gli rispose: "Bisogna organizzare una riunione ed interrogare i gatti.
Voi porrete le domande poiché siete un maestro di Kendo.
I gatti capiscono sicuramente le arti marziali."
Ci fu quindi un'assemblea di gatti presieduta dal gatto nero che era il più anziano.
Il gatto di grondaia disse: "Ero molto forte".
Il gatto nero allora gli domandò: "Perché non hai vinto dunque?"
Il gatto di grondaia rispose:
"Sono molto forte, possiedo molte tecniche per catturare i topi.
I miei artigli sono forti e i miei salti potenti ma questo topo non era come gli altri".
Il gatto nero allora dichiarò:
"La tua forza e la tua tecnica non possono essere al di là di questo topo.
Anche se i tuoi poteri ed il tuo waza sono molto forti,
non hai potuto vincere grazie alla tua arte. Impossibile!"
Allora parlò il gatto tigrato: "Sono molto forte, alleno sempre il mio Ki,
la mia energia, e la mia respirazione attraverso lo Zazen. Non mi nutro che di legumi
e zuppa di riso, per questo la mia attività è molto forte.
Ma non ho potuto vincere questo topo. Perché?"
Il vecchio gatto nero gli rispose:
"La tua attività ed il tuo Ki sono forti, ma questo topo era al di là di questo Ki.
Tu sei più debole del grosso topo.
Se il tuo Ki è troppo repentino, troppo breve, non sei altro che sopraffatto dalla passione.
Si può quindi dire, per esempio, che la tua attività è paragonabile all'acqua
che esce da un rubinetto, quella del topo è simile ad un potente getto d'acqua.
Ecco perché la forza del topo è superiore alla tua.
Anche se la tua attività è forte, in effetti essa è debole poiché hai un'eccessiva fiducia in te stesso."
Fu quindi il turno del gatto bianco e nero che non aveva potuto vincere.
Era molto forte e intelligente. Aveva il satori.
Aveva sperimentato tutti i waza e praticava lo Zazen.
Ma non era mushotoku (senza scopo né spirito di profitto), e anch'esso era dovuto fuggire.
Il gatto nero gli disse:
"Tu sei molto intelligente e forte, ma non hai potuto vincere
questo topo poiché avevi uno scopo e la sua intuizione era più grande della tua.
Quando sei entrato, ha capito subito il tuo stato mentale.
Per questo non hai potuto trionfare. Non hai saputo armonizzare la tua forza,
la tua tecnica e la tua coscienza attiva, che sono rimaste separate anziché unificarsi.
Mentre io, in un solo istante, ho utilizzato queste tre facoltà inconsciamente, naturalmente
ed automaticamente. È così che ho potuto uccidere il topo.
Ma qui vicino, nel villaggio accanto, conosco un gatto più forte di me.
È molto vecchio ed il suo pelo è grigio. L'ho incontrato, e non appare affatto forte!
Non mangia affatto carne né pesce, solamente guenmai (zuppa di riso),
qualche volta beve un po' di saké. Non ha mai preso un solo topo, tutti hanno paura
e fuggono davanti a lui. Non si avvicinano mai e così non ha mai avuto occasione di catturarne uno!
Un giorno è entrato in una casa infestata da topi. Tutti i topi sono rapidamente fuggiti.
Poteva cacciarli anche dormendo. Questo gatto grigio è veramente molto misterioso
.
Tu devi diventare come quello, essere al di là della posizione, della respirazione e della coscienza."
Grande lezione per Shoken, maestro di Kendo!
Oltre le apparenze
Molti anni fa, in un povero villaggio cinese viveva un contadino con suo figlio. Il suo unico bene materiale, a parte la terra e la piccola casa di paglia, era un cavallo che aveva ereditato da suo padre.
Un giorno il cavallo scappò, lasciando l'uomo senza un animale per lavorare la terra.
I suoi vicini, che lo rispettavano molto per la sua onestà e diligenza, accorsero alla sua casa per dirgli quanto erano spiacenti di ciò che gli era accaduto.
Egli fu loro grato della visita, però chiese: "Come potete sapere che ciò che è accaduto sia una disgrazia nella mia vita?" Qualcuno dei vicini commentò a voce bassa con un amico: "Non vuole accettare la realtà, lasciamo che pensi ciò che vuole, così non si rattristerà per l'accaduto." Dunque i vicini se ne andarono, fingendo di essere d'accordo con ciò che avevano udito. Una settimana dopo il cavallo ritornò nella stalla, però non tornò da solo: tornò in compagnia di una stupenda cavalla. Saputo del ritorno del cavallo, gli abitanti del villaggio rimasero stupiti, perché solo allora compresero la risposta che il contadino aveva dato loro. Ritornarono alla casa del contadino per felicitarsi con lui della sua fortuna. "Prima avevi solo un cavallo e ora ne hai due. Complimenti!" gli dissero. "Grazie per la visita e per la vostra solidarietà!" rispose il contadino "Però come potete sapere che questa sia una benedizione nella mia vita?" Sconcertati, i vicini pensarono che l'uomo stesse diventando pazzo, così se ne andarono e intanto commentavano: "Com'è possibile che quest'uomo non capisca che Dio gli ha mandato un regalo?" Trascorse un mese, il figlio del contadino decise di domare la cavalla. Però l'animale inaspettatamente si imbizzarrì, e il ragazzo cadde malamente rompendosi una gamba. I vicini ritornarono alla casa del contadino, portando i propri omaggi al giovane ferito. Il sindaco del paese disse solennemente al padre di essere dolente, e che anche tutti gli altri erano costernati per l'accaduto. Il contadino fu grato della visita e dell'affetto di tutti. Però chiese: "Come potete sapere se ciò che è accaduto sia una disgrazia nella mia vita?" Questa frase lasciò tutti sconvolti, perché nessuno poteva avere il minimo dubbio che un incidente ad un figlio fosse una vera tragedia. Uscendo dalla casa del contadino commentavano: "E' veramente diventato pazzo, il suo unico figlio può rimanere zoppo per sempre e ancora dubita che questa sia stata una disgrazia!". Trascorsero alcuni mesi e il Giappone dichiarò guerra alla Cina. Gli emissari dell'imperatore percorsero tutto il paese in cerca di giovani sani per inviarli nei campi di battaglia. Arrivando al villaggio, reclutarono tutti i giovani, tranne il figlio del contadino, che aveva la gamba rotta. Nessuno dei giovani ritornò vivo al villaggio. Il figlio del contadino si ristabilì, i due cavalli diedero dei puledrini che furono venduti e resero del buon denaro. Il contadino andò a far visita ai suoi vicini per consolarli e aiutarli, dato che si erano dimostrati solidali con lui nel momento del bisogno. Ogni volta che qualcuno di loro si lamentava, il contadino diceva: "Come fai a sapere se questa è una disgrazia per te?". Se qualcuno si rallegrava molto, lui gli chiedeva: "Come fai a sapere se questa è una benedizione per te?"
E gli uomini di quel villaggio compresero che, al di là delle apparenze, la vita ha altri significati.
Storia Zen: Rovesciando idoli
Un saggio, dopo anni e anni di vita nel mondo al servizio degli uomini, sapendo che di lì a poco sarebbe morto, decise di ritirarsi su una montagna per passare lì gli ultimi mesi della sua vita.
Un giorno, mentre questi gustava rapito in estasi la profondità della Vita Universale, si presentò nella sua grotta un angelo.
La creatura alata gli disse: "Sei stato un uomo esemplare, hai agito nel mondo come pochi avrebbero potuto,
sei la gloria di Dio. Egli mi ha mandato qui per concederti un ultimo desiderio. Dimmi ciò che desideri ed io te lo darò".
L'uomo sorrise e disse: "Vattene allora, cosa potrei desiderare ancora? Non posso certo cadere in questa trappola! Addio".
Quando l'angelo scomparve, il saggio disse tra sé e sé: "Le prove non finiscono mai… "
Uno con l'essenza stessa di Dio
Rovescia ogni idolo
Se avesse accettato
Si sarebbe perduto.
Perché vai in bicicletta?
Un maestro Zen vide cinque dei suoi studenti di ritorno dal mercato, in sella alle loro biciclette.
Quando arrivarono al monastero, l’insegnante chiese agli studenti: «Perché andate bicicletta?»
Il primo studente rispose:
«La bicicletta sta portando questo sacco di patate.
Sono contento di non dover portare il peso sulla schiena.»
L’insegnante disse:
«Tu sei un ragazzo intelligente. Quando sarai vecchio, non camminerai curvo come me.»
Il secondo studente rispose:
«Mi piace vedere altri posti, guardare gli alberi e campi lungo il sentiero.»
L’insegnante lo elogiò:
«I tuoi occhi sono aperti e in grado di vedere il mondo.»
Il terzo studente rispose:
«Il ritmo della pedalata fluida libera la mia mente e il mio corpo.»
L’insegnante lo applaudì:
«La tua mente rotolerà con la facilità di una ruota.»
Il quarto studente rispose:
«In sella alla mia bicicletta, vivo in armonia con la natura, l’ambiente e tutti gli esseri senzienti.» L’insegnante disse:
«Stai pedalando sul sentiero d’oro della compassione.»
Il quinto studente rispose:
«Io vado in bicicletta per andare in bicicletta.»
L’insegnante sedutosi ai piedi del quinto studente rispose:
«Io sono il tuo studente.»
Il Millepiedi
Un millepiedi viveva sereno e tranquillo. Ma un giorno una rana gli domandò:"In che ordine metti i piedi l’uno dietro l’altro?".Il millepiedi incominciò a lambiccarsi il cervello e a fare innumerevoli prove.
Il risultato fu che da quel momento non riuscì più a muoversi.
Una scheggia di tempo, una grande gemma
Un signore pregò Takuan, un insegnante di Zen, di suggerirgli come potesse trascorrere il tempo.
Le giornate gli sembravano molto lunghe, mentre assolveva le proprie funzioni e se ne stava seduto e impettito a ricevere l'omaggio della gente.
Takuan tracciò otto ideogrammi cinesi e li diede all'uomo:
Non si ripete due volte questo giorno
Scheggia di tempo grande gemma.
Mai più tornerà questo giorno.
Ogni istante vale una gemma inestimabile.
L'allievo e le stelle
Un giovane monaco si lamentava con un anziano maestro di non riuscire a giungere alla comprensione.
Il maestro allora, lo portò una notte nel giardino del monastero e gli chiese:
"Le vedi le stelle?". "Si " rispose l'allievo osservando la miriade degli astri del firmamento." La vedi quella stella là, la più luminosa? ". Il monaco disse che riusciva a scorgere proprio quella stella che intendeva indicargli il maestro. "Allora la vedi quella stella a destra vicino a quella che ti ho indicato? ".
"Ma non c'è nessuna stella a destra di quella luminosa!" ribatté il giovane. Il maestro allora insistette e alla fine, dopo un po', il giovane scorse una stella che subito non era visibile, ma che fissando più attentamente, emanava una debole luce a destra di quella più luminosa.
"Ecco - allora disse il maestro - la comprensione è come quella stella. Non devi essere in grado di capire se c'è una stella, ma solo essere certo che ci sia, nonostante tu non possa vederla chiaramente. Quindi per la tua saggezza non serve che tu giunga a capire, basta che tu creda che ci sia!".
L'allievo allora si stupì di tale insegnamento e ringraziò il maestro per tanta saggezza elargita. Ma subito volle sapere: "Maestro, ma come hai potuto sapere che quella stella ne avesse una vicina così poco visibile?".
Il maestro disse: "Non sono nemmeno convinto che abbiamo guardato la stessa stella, ma con tutte le stelle che ci sono nel firmamento, ce n'è sempre una meno luminosa che si scorge appena vicino ad una luminosa, solo guardandola indirettamente!".
Neko No Myojutsu - Le meravigliose tecniche del vecchio gatto
C'era una volta uno spadaccino di nome Shoken. La sua casa era infestata da un enorme ratto che se ne andava a zonzo liberamente, anche durante il giorno. Il gatto domestico di Shoken non era all'altezza di cacciarlo e fuggiva terrorizzato dopo essere stato morso in modo grave. Shokan prese allora numerose puzzole locali perché lo combattessero in gruppo. Le puzzole liberate nell'abitazione cominciarono a cercare il ratto, che se ne stava rannicchiato in un angolo in attesa del loro arrivo. Esso le attaccò ferocemente una ad una allontanandole tutte.
Furioso per lo spregevole fallimento delle puzzole, il maestro decise di affrontare il ratto con la spada. Nonostante la sua grande abilità di spadaccino, non fu in grado di colpire il ratto che continuava a saltare da una parte all'altra della stanza volando in aria, schizzando come un fulmine e balzandogli spavaldamente in testa. Esasperato Shoken abbandonò ogni tentativo e decise di chiedere aiuto allo stupefacente vecchio gatto del villaggio vicino.
Quando il proprietario porto il Vecchio Gatto a casa di Shoken, egli fu sorpreso dall'aspetto ordinario ed invecchiato del gatto. Decise di dargli comunque una possibilità e lo liberò nella stanza. Non appena lo vide avvicinarsi, il ratto s'irrigidì. Il gatto si fece avanti con noncuranza, lo prese per il collo e, portatolo fuori della stanza, lo presentò a Shoken.
Quella notte gli altri gatti si riunirono e offrirono al Vecchio Gatto il seggio d'onore. Gli dissero: "Siamo rinomati per la nostra abilità nel catturare ratti, possiamo anche fermare donnole e lontre, le nostre unghie sono come rasoi. Tuttavia nulla abbiamo potuto contro quel ratto. Come hai fatto a catturare quel ratto gigantesco? Svela per favore anche a noi i segreti della Tua arte".
Il Vecchio Gatto rise e disse "Beh, siete ancora giovani e, pur avendo esperienza di combattimento con i ratti, avete ancora molto da imparare. Prima che io inizi, ditemi del vostro allenamento".
Un gatto nero si fece avanti e disse: "Sono stato allevato in una famiglia specializzata nell'addestramento dei gatti. Mi è stato insegnato a saltare una transenna di due metri, a infilarmi in buchi strettissimi e a compiere ogni sorta di trucco acrobatico. Sono esperto nel fingermi addormentato e poi colpire non appena il ratto si avvicina. Nessun ratto poteva sfuggirmi. Riuscivo a catturarli anche quando saltavano sulle travi del soffitto. Non ero mai stato sconfitto prima di incontrare quel vecchio ratto".
Il vecchio Gatto disse: "Il vostro addestramento si è basato esclusivamente sulla tecnica. Pensate solamente a prendere il ratto. I maestri antichi hanno insegnato schemi e movimenti per farci sviluppare una buona tecnica. Anche la più semplice delle tecniche contiene profondi principi. Vi state concentrando troppo sulla tecnica esterna. Questo vi porta a dubitare della tradizioni dei maestri e a inventare nuovi trucchi. Tuttavia se vi basate troppo sulla tecnica, alla fine arriverete a un punto morto perché la tecnica fisica ha dei limiti. Pensateci bene".
Si fece avanti a quel punto il gatto tigre, che disse: "Io credo che lo sviluppo del ki sia molto importante. Ho coltivato il mio ki per molti anni e il mio spirito è molto forte, colma il cielo e la terra. Ero in grado di affrontare i miei avversari con un ki schiacciante, sconfiggendoli all'istante. Ero in grado di rispondere immediatamente a qualsiasi stimolo, a qualsiasi movimento. Non dovevo pensare, le tecniche si manifestavano naturalmente. Ero in grado di raggelare un ratto che saltava sulla trave e farlo cadere a terra, ma quel vecchio ratto pare non avere forma e non lasciare traccia. Sono sconcertato".
Il Vecchio Gatto replicò: "Il potere del ki da te usato è ancora una funzione della mente e quindi è troppo concentrato sull'ego. Si basa interamente sul livello di fiducia in te stesso. Finchè continui ad essere consapevole del tuo ki e usarlo mentalmente per sconfiggere un avversari, non fai altro che creare resistenza. E stai pure certo che incontrerai un avversario con un ki ancora più forte del tuo. Puoi pensare che il potere del tuo ki colmi l'universo proprio come il kozen no ki (l'energia universale) utilizzato dal saggio cinese Mencius, ma non è così. Nel caso di Mencius, il ki è brillante e vigoroso. Il suo modo di utilizzare il ki è quello di un grande fiume; il tuo modo è quello di un'alluvione passeggera. Conosciamo tutti il proverbio Il gatto che morde, è morso dal ratto . Quando un ratto è intrappolato nell'angolo dimentica la vita, dimentica i desideri, dimentica di vincere o di perdere, dimentica corpo e mente. Questa forza è come l'acciaio e non può essere vinta soltanto con il potere del ki".
A quel punto il gatto grigio più anziano avanzò quietamente e disse: "Come hai affermato, quel particolare potere del ki può essere molto forte ma continua a mantenere una forma, per quanto leggera, che può essere usata contro di te. Personalmente sono molti anni che coltivo il mio cuore. Non faccio affidamento solo sul potere del ki, non nutro mai pensieri di combattimento e cerco sempre di pormi in uno stato d'armonia, se vengo attaccato. Quando l'avversario è forte, mi piego e seguo i suoi movimenti. La mia tecnica è quella di una tenda che cattura e lascia cadere a terra la pietra che le è lanciata contro. Fino a questo momento, anche il più forte dei ratti non era riuscito ad attaccarmi. Questo, tuttavia è incredibile; il potere del ki e il potere dell'armonia non hanno alcun effetto su di lui".
Il Vecchio Gatto rispose: "Il tuo potere dell'armonia non è il potere dell'armonia della natura. E' una proiezione della tua mente, perciò è limitato. Qualsiasi traccia di pensiero cosciente distrugge l'equilibrio e un avversario arguto coglierà l'occasione per infilarsi in un varco. Il pensiero ostacola la natura e ostruisce la vera funzione. Non pensare, non agire; segui i movimenti della natura e il sé scomparirà. In assenza di sé non avrai avversari né in cielo né in terra. "Non è mia intenzione suggerire che il vostro difficile addestramento sia inutile. La Via ha molti modi, le tecniche contengono principi universali. Il potere del ki fa funzionare il corpo e vivifica il cosmo. Il potere dell'armonia consente di omogeneizzarsi naturalmente con ogni sorta di forza attaccante, anche le rocce, senza essere spezzati.
Tuttavia, non appena si manifesta anche un minimo pensiero cosciente, volontà e progetto ti separano dalla Via naturale. Vedi te stesso e gli altri come entità separate, come avversari. Mi chiedete quale sia la mia tecnica: la risposta è Mushin (non- mente). Mushin è agire in accordo con la natura, nient'altro. La Via non ha limiti, non prendete queste mie parole come la rivelazione ultima. Molto tempo fa, nel mio quartiere c'era un gatto che pareva non fare altro che sonnecchiare tutto il giorno. Il gatto pareva privo di spirito, quasi come un gatto di legno. Nessuno l'aveva mai visto cacciare un ratto, eppure ovunque andasse o si trovasse non c'era ratto che si azzardasse a comparire. Andai a trovare il gatto e gli chiesi di spiegarmene la ragione. Posi la domanda quattro volte, ma il gatto rimase in silenzio. Non che non volesse rispondere: piuttosto non sapeva come rispondere. Il proverbio dice: quelli che sanno non parlano; quelli che parlano non sanno. Il gatto aveva dimenticato se stesso e gli oggetti per dimorare in uno stato di assenza di scopo. Quel gatto rese concreta la divina arte marziale del non-uccidere. Ancora non sono all'altezza di quel gatto".
Shoken, che aveva origliato la conversazione, non poté più contenersi ed irruppe nella stanza. " Mi sono addestrato nell'arte di maneggiare la spada per molti anni, ma ancora devo penetrare l'essenza. Questa sera ho ascoltato insegnamenti su metodi diversi di addestramento e ho imparato molto sulla mia stessa Via della spada. Ti prego, insegnami i tuoi più profondi e preziosi segreti".
Il Vecchio Gatto rispose: "Non posso farlo. Sono solo un animale che caccia i ratti per mangiarli. Cosa posso sapere delle vicende umane? Eppure ho una cosa da dirti. L'arte di maneggiare la spada non è una mera questione di vincere un avversario. In un certo momento critico diventa l'arte di illuminare la vita e la morte. I samurai devono coltivare questa attitudine mentale e disciplinarsi in questo spirito. Penetra il principio di vita e di morte, innanzitutto, e mantieni quello spirito. Non vi saranno dubbi, né pensieri erranti, né calcoli, né decisioni. Il tuo spirito rimarrà calmo e pacifico, privo di ostacoli, libero di rispondere ad ogni evenienza. Al contrario, se vi è anche il più vago oggetto nella tua mente, vi sarà un ego, vi sarà un nemico, vi sarà un conflitto, vi sarà perdita di libertà. Entrerai nel buio della morte e perderai luminosità spirituale. Come puoi aspettarti di affrontare un avversario in tale stato ? Anche se dovessi vincere, sarebbe una vittoria superficiale e non vera arte della spada. L'assenza di scopo non è una mancanza; è senza forma, non persegue obbiettivi. Se si alimentano pensieri, il potere del ki si accumula attorno. Il ki è dunque soffocato e i movimenti diventano stagnanti, squilibrati, incontrollati. Quello che io chiamo assenza di scopo non persegue nulla, non fa affidamento su nulla, non ha nemici, non ha sé; risponde ad ogni cosa in modo naturale e non lascia traccia.
"L'I Ching afferma: senza pensiero, senza fare, naturalmente stabilita, la Via attiva se stessa nell'universo. Gli spadaccini che comprendono questo principio sono prossimi alla via".
Shoken domandò: "Che cosa si intende per Non vi è nemico, non vi è sé?". Il Vecchio Gatto rispose: "Poiché vi è un sé, vi è un nemico. Se non vi è un sé non vi è un nemico. Nemico è quanto si trova in opposizione, lo stesso tipo di opposizione presente all'esterno in yin-yang, fuoco e acqua. Ogni oggetto dotato di forma ha un opposto. Quando la mente non ha forma, non vi è nulla che vi si possa opporre. Quando non vi è opposizione, non vi è nulla contro cui combattere. Questo è chiamato nessun nemico, nessun sé. Quando il sé e gli oggetti sono entrambi dimenticati, si manifesta un naturale stato di non attività, di assenza di problemi, di unità. La forma del nemico è scomparsa e tu non sai nulla. Non è come essere inconsapevoli; significa assenza di pensiero calcolatore e immediata risposta naturale. Questa mente è libera e consente al mondo di diventare il tuo dominio. Astrazioni quali questo, quello, bello e brutto scompaiono. Piacere e dolore, guadagno e perdita sono altre creazioni della mente. Il cielo e la terra non sono da ricercare all'esterno della propria mente. Un'antica celebrità una volta disse: Una singola pagliuzza nell'occhio può far apparire i tre mondi molto stretti; libera la tua mente e la tua vita sarà priva di impedimenti!". Quando una pagliuzza entra nell'occhio, quasi non si riesce a tenere l'occhio aperto ed è difficile vedere le cose. Quando un corpo luminoso per natura viene contaminato da un oggetto estraneo, perde trasparenza. Lo stesso vale per la mente. Un altro antico disse "circondato da migliaia di nemici, il tuo corpo può essere fatto a pezzi, ma la tua mente è tua e non può mai essere vinta" Confucio disse : persino il più meschino degli uomini non può essere privato della sua volontà. QUANDO SEI ILLUSO, LA TUA STESSA MENTE DIVENTA IL TUO NEMICO. "Vorrei ora cessare di parlare. Ora sta a voi. Un maestro può trasmettere tecniche e illuminare i principi che le animano, ma non può fare di più. La verità deve essere realizzata individualmente. Questo è il conseguimento del Sé. Si chiama trasmissione mente a mente e trasmissione individuale al di fuori dei testi. L'insegnamento non dipende dalla tradizione bensì utilizza la tradizione e comunque un maestro non può insegnare ogni cosa. Questo principio non è limitato allo Zen. Dai metodi d'insegnamento spirituale degli antichi saggi ai capolavori creati dagli artisti, tutto è basato sul conseguimento del Sé e sull'istantanea trasmissione mente a mente, un insegnamento al di fuori dei testi. I testi insegnano quanto si ha dentro e assistono al compito di raggiungerlo da sé e per sé. In realtà un maestro non dà nulla. E' facile parlare ed è facile ascoltare, ma è difficile comprendere questi insegnamenti e farli veramente propri. Questo di chiama Kensho (vedere nella propria natura) e satori (illuminazione). Satori significa "risveglio dal sogno dell'illusione". E' consapevolezza affinata".
Il serpentello
C'era una volta un uomo che venne invitato a casa da un amico, e quando fu sul punto di bere del vino che gli era stato offerto, gli sembrò di vedere un serpentello nella tazza. Poiché non voleva mettere in imbarazzo l'anfitrione attirando l'attenzione sulla faccenda, inghiottì coraggiosamente. Al ritorno a casa avvertì forti dolori allo stomaco; gli somministrarono diverse cure ma tutto fu inutile, e l'uomo, a quel punto gravemente ammalato, si sentiva prossimo alla morte. L'amico, informato sulle sue condizioni, lo invitò ancora una volta e, dopo averlo fatto accomodare nello stesso posto, gli offrì un'altra tazza di vino, dicendogli che era una medicina.
Quando l'afflitto sollevò la tazza per bere vide ancora che conteneva un serpentello, e questa volta richiamò l'attenzione del padrone di casa. Senza una parola, l'anfitrione indicò il soffitto sopra il posto dell'ospite, dov'era appeso un arco. All'improvviso il malato si rese conto che il "serpentello" era il riflesso dell'arco appeso; i due si guardarono e scoppiarono in una risata. La sofferenza del malato svanì ed egli recuperò la salute all'istante.
Il processo con cui si diventa un Buddha assomiglia a questa storia. Il Patriarca Yoka (665-713) diceva: "Quando comprendete la vera natura dell'universo capite che non esiste realtà soggettiva ne oggettiva. In quel preciso istante, le formazioni karmiche che vi conducevano all'inferno più infimo vengono spazzate via". Questa natura autentica è l'essenza della radice di ogni essere senziente.
Maestro Zen Bassui Tokusho
Ciò che porti nel cuore
C’era una volta un vecchio saggio seduto ai bordi di un’oasi all’entrata di una città del Medio Oriente.
Un giovane si avvicinò e gli domandò: “Non sono mai venuto da queste parti. Come sono gli abitanti di questa città?”
L’uomo rispose a sua volta con una domanda: “Come erano gli abitanti della città da cui venivi?”
“Egoisti e cattivi. Per questo sono stato contento di partire di là”.
“Così sono gli abitanti di questa città”, gli rispose il vecchio saggio.
Poco dopo, un altro giovane si avvicinò all’uomo e gli pose la stessa domanda: “Sono appena arrivato in questo paese. Come sono gli abitanti di questa città?”
L’uomo rispose di nuovo con la stessa domanda: “Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?”
“Erano buoni, generosi, ospitali, onesti. Avevo tanti amici e ho fatto molta fatica a lasciarli!”
“Anche gli abitanti di questa città sono così”, rispose il vecchio saggio.
Un mercante che aveva portato i suoi cammelli all’abbeveraggio aveva udito le conversazioni e quando il secondo giovane si allontanò si rivolse al vecchio in tono di rimprovero: “Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda posta da due persone?
“Figlio mio”, rispose il saggio, “ciascuno porta nel suo cuore ciò che è. Chi non ha trovato niente di buono in passato, non troverà niente di buono neanche qui. Al contrario, colui che aveva degli amici leali nell’altra città,troverà anche qui degli amici leali e fedeli. Perché, vedi, ogni essere umano è portato a vedere negli altri quello che è nel suo cuore.”
I Ciliegi innamorati
Due Ciliegi innamorati, nati distanti, si guardavano senza potersi toccare.
Li vide una Nuvola, che mossa a compassione, pianse dal dolore ed agitò le loro foglie…
ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.
Li vide una Tempesta, che mossa a compassione, urlò dal dolore ed agitò i loro rami…
ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.
Li vide una Montagna, che mossa a compassione, tremò dal dolore ed agitò i loro tronchi…
ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.
Nuvola, Tempesta e Montagna ignoravano, che sotto la terra, le radici dei Ciliegi erano intrecciate in un abbraccio senza tempo.
La scimmia e la luna
Una scimmia sedeva sulla sponda di un lago
e vide il riflesso della luna nell’acqua.
Incantata, entrò nell’acqua per prenderlo.
Ma più cercava di afferrarlo e più il riflesso si sottraeva,
frantumato in mille altri riflessi causati dalle onde che la scimmia produceva.
La scimmia non riusciva a capire che era solo un riflesso.
Alla fine, in un ultimo disperato tentativo di acchiappare la luna,
si tuffò nell’acqua e annegò.
Se avesse smesso di agitare l’acqua e avesse guardato in alto,
avrebbe visto la vera luna nel cielo.
Come tu sei così è il mondo
"Chi sono io?" Chiese un giovane ad un maestro di spiritualità.
"Te lo spiego con una piccola storia" rispose il saggio.
Un giorno, dalle mura di una città, verso il tramonto si videro sulla linea dell'orizzonte due persone che si abbracciavano.
"Sono un papà e una mamma", pensò una bambina innocente.
"Sono due amanti", pensò un uomo dal cuore torbido.
"Sono due amici che s'incontrano dopo molti anni", pensò un uomo solo.
"Sono due mercanti che hanno concluso un buon affare", pensò un uomo avido di denaro.
"E' un padre che abbraccia un figlio di ritorno dalla guerra", pensò una donna dall'anima tenera.
"E' una figlia che abbraccia il padre di ritorno da un viaggio", pensò un uomo addolorato per la morte di una figlia.
"Sono due innamorati", pensò una ragazza che sognava l'amore.
"Sono due uomini che lottano all'ultimo sangue", pensò un assassino.
"Chissà perché si abbracciano", pensò un uomo dal cuore arido.
"Che bello vedere due persone che si abbracciano", pensò un uomo di Dio.
"Ogni pensiero", concluse il maestro, " rivela a te stesso quello che sei.
"Esamina di frequente i tuoi pensieri: ti possono dire molte più cose su di te di qualsiasi maestro.
Il Problema
Un giorno, il Gran Maestro radunò tutti gli allievi per eleggere il suo assistente.
"Vi sottopongo un problema" disse il Maestro.
"Chi lo risolverà sarà il mio braccio destro".
Detto questo, sistemò un tavolino al centro della sala e sul tavolino pose un preziosissimo vaso di porcellana decorata da finissime rose d'oro.
"Questo è il problema. Risolvetelo".
I discepoli contemplarono perplessi il "problema".
Era un vaso di porcellana inimitabile: ne ammiravano i disegni rari, la freschezza e l'eleganza delle rose.
"Cosa rappresentava? Qual'era l'enigma? Che cosa si doveva fare?" si chiedevano.
Il tempo passava e nessuno osava fare nulla, salvo contemplare il "problema".
Ad un certo punto, uno dei discepoli si alzò, guardò il Maestro e i compagni, poi si incamminò risolutamente verso il vaso e lo scaraventò a terra, mandandolo in frantumi.
"Finalmente qualcuno lo ha fatto!" esclamò il Gran Maestro. "Cominciavo a dubitare della formazione che vi avevo dato in tutti questi anni!".
Poi si rivolse al giovane: "Sarai tu il mio assistente".
Mentre il giovane tornava al suo posto, il Maestro spiegò: "Io sono stato chiaro.
Vi ho detto che questo era un problema. Non importa quanto possa essere bello e affascinante, un problema deve essere eliminato".
C'è un modo solo per risolvere un problema: affrontarlo.
La spada di Banzo
Yagyu Matajuro era il figlio di un famoso spadaccino.
Suo padre, però non convinto che il figlio possedesse le capacità per raggiungere la maestria, lo disconobbe.
Così Matajuro decise di salire il Monte Futara per consultare il famoso spadaccino Banzo. Ma Banzo confermò il giudizio del padre:
"Tu vuoi imparare a maneggiare la spada sotto la mia guida?" gli chiese Banzo, "Mi spiace, ti mancano i requisiti indispensabili".
"Ma se lavoro sodo, quanti anni mi ci vorranno per diventare un maestro?" insistette il giovane.
"Il resto della tua vita" rispose Banzo.
"Non posso aspettare tanto" disse Matajuro. "Se accetti di darmi lezione, sono pronto a sottopormi a qualunque fatica. Se divento il tuo devotissimo servo, quanto tempo ci vorrà?"
"Oh, dieci anni, forse" disse Banzo addolcendosi.
"Mio padre si sta facendo vecchio e presto dovrò prendermi cura di lui" continuò Matajuro. "Se lavoro ancora più assiduamente, quanto tempo mi ci vorrà?"
"Oh, forse trent'anni" rispose Banzo.
"Ma come!" disse Matajuro. "Prima hai detto dieci anni, e ora trenta! Accetterò qualunque privazione pur di imparare quest'arte nel tempo più breve!"
"Be'," disse Banzo "allora dovrai restare con me settant'anni. Un uomo che ha tanta fretta di ottenere dei risultati raramente impara alla svelta".
"E va bene" dichiarò il giovane, comprendendo infine che gli si stava rimproverando la sua impazienza. "Accetto".
Matajuro ebbe l'ordine di non parlare mai dell'arte della scherma e di non toccare mai una spada.
Così passava le sue giornate cucinando per il suo maestro, lavando i piatti, rifacendo i letti, curando il giardino, e tutto senza che si parlasse mai di spada.
Passarono tre anni.
Matajuro continuava a lavorare ma pensando al proprio avvenire era sempre più triste e depresso.
Non aveva ancora cominciato a imparare l'arte alla quale aveva votato la propria vita.
Ma un giorno Banzo scivolò alle sue spalle e gli diede un colpo terribile con una spada di legno.
Il giorno successivo, mentre Matajuro stava cucinando del riso, ricevette nuovamente un forte colpo da Banzo.
Da allora, giorno e notte, Matajuro dovette difendersi dagli assalti inaspettati e non passava giorno e non c'era momento che non dovesse pensare al sapore della spada di Banzo.
Imparò così in fretta che la faccia del suo maestro era raggiante di sorrisi.
Matajuro divenne così il più grande spadaccino del paese.
Il gallo da combattimento
Un re desiderava avere un gallo da combattimento molto forte e allora chiese a uno dei suoi istruttori di allevargliene uno. All'inizio costui insegnò al gallo la tecnica del combattimento. Dopo dieci giorni il re gli domandò: “Si potrebbe organizzare un combattimento con il nostro gallo?”. L'istruttore disse: “No. E' forte, ma di una forza vuota. Vuol sempre combattere, é eccitato e la sua é una forza effimera”.
Dieci giorni più tardi il re nuovamente chiese all'istruttore: ”Si può finalmente organizzare questo combattimento?”. “No, non ancora. E' troppo eccitabile, anche solo sentendo un altro gallo, da un villaggio vicino, s'infuria e vuole battersi”.
Dopo altri dieci giorni di allenamento, il re chiese di nuovo: “E' possibile, ora?”. L'istruttore rispose: “Ora non si eccita più; se sente o se vede un altro gallo, resta tranquillo. La sua posizione é giusta, la sua tensione é forte, la sua energia e la sua forza non si manifestano in superficie”.
“Allora é pronto per battersi?” chiese il re. L'allevatore rispose: “Forse“.
Si organizzò dunque un torneo. Ma gli altri galli non osavano avvicinarsi a lui. Fuggivano impauriti, e così non ebbe bisogno di combattere. Quel gallo aveva superato la tecnica, acquisendo una forte energia interiore. La forza era in lui, e così gli altri galli non potevano che inchinarsi davanti alla sua potenza segreta.
La formazione di un allievo
Un giovane allievo si presentò dal celebre Maestro per essere iniziato all'arte del Kendo. Per tutta risposta fu inviato con una scure a spaccar legna.
La pazienza e la costanza dell'allievo furono premiati dopo sei mesi, quando gli fu concesso di entrare nel Dojo ma esclusivamente per un singolare compito: avrebbe dovuto camminare senza mai sbagliare sulla stretta striscia cucita che unisce i vari tatami tra loro. L'allievo si applicò diligentemente per altri sei mesi, mentre vicino a lui gli altri allievi si battevano con le shinai, poi si rivolse al maestro: "Maestro, mi sono conformato ai vostri insegnamenti, ma sono venuto da voi per apprendere l'arte del kendo e non ho ricevuto, sino ad ora, nessun insegnamento specifico, sono deciso a partire". "Aspetta ancora un giorno"replicò il maestro, domani ti mostrerò il segreto del Kendo".
L'indomani i due si arrampicarono sulle montagne sino ad un punto in cui era richiesto, per passare sull'altro versante, attraversare un tronco gettato a mò di ponte fra i bordi di un precipizio. La corrente fragorosa di un ruscello scorreva parecchi metri più sotto.
Il maestro invitò l'allievo a passare sullo stretto ed improvvisato ponte, certamente più grande della sottile linea su cui aveva l'abitudine di camminare nel Dojo. Il giovane allievo preso dall'incertezza indugiava.
Nel frattempo arrivò dall'altra parte un cieco che, tastando con il suo bastone, attraversò senza incertezze.
Il giovane comprese prontamente ed attraversò a sua volta il ponte. " Vedi, disse il maestro, ora sei libero di imparare la tecnica (Gi) da uno dei tanti maestri che esistono nel Giappone io ti ho costruito un corpo forte (Tai) e dato un giusto spirito (Shin)".
La partita a scacchi
Un giovane si presentò ad un maestro zen e disse:
«Vorrei raggiungere la liberazione dalla sofferenza promessa dal Buddha. Ma non sono capace di lunghi sforzi e non sono in grado di meditare. Esiste una via che posso seguire?»
«Che cosa sai fare?» gli domandò il maestro
«Niente.» rispose il giovane
«Ma c'è qualcosa che ti piace fare?» gli chiese ancora il maestro
«Giocare a scacchi.» rispose il giovane. Il maestro fece portare una scacchiera e una spada.
Poi chiamò un giovane monaco e disse ai due:
«Chi di voi vincerà questa partita a scacchi raggiungerà la liberazione. Chi perderà sarà ucciso con questa spada. Accettate?»
I due giovani acconsentirono e incominciarono a giocare.
Sapendo che era una questione di vita o di morte, si concentrarono come non avevano mai fatto.
A un certo punto il primo giovane si trovò in vantaggio e pensò che la vittoria era sicura.
Guardò il suo avversario e si accorse che il maestro aveva sollevato la spada sulla sua testa.
Allora ne ebbe compassione e compì un errore deliberato.
Ora era lui che stava per perdere.
Vide che il maestro aveva spostato la spada sulla sua testa... e chiuse gli occhi.
La spada si abbatté sulla scacchiera.
«Non c'è né vincitore nè vinto» proclamò il maestro
«e quindi non taglierò la testa a nessuno».
Poi aggiunse rivolto al primo giovane:
«Due sole cose sono necessarie: la concentrazione e la compassione.
E tu le hai sperimentate entrambe. Questa è la via che cerchi».
La mente viene prima della tecnica?
Tra gli allievi di Bokuden ce n’era uno dotato di straordinaria abilità tecnica. Una volta, mentre camminava per strada, l'allievo passò vicino ad un cavallo ombroso che improvvisamente gli sferrò un calcio, ma lui fece un'abile schivata per evitarlo e sfuggì all’incidente.
I testimoni presenti dissero "La sua fama di essere uno dei migliori allievi di Bokuden è pienamente meritata. Bokuden non tramanderà sicuramente a nessun altro i suoi segreti".
Ma quando Bokuden seppe di questo incidente si inquietò molto e disse "Mi sono sbagliato sul suo conto", poi lo espulse dalla sua scuola.
Nessuno degli altri allievi comprese il pensiero di Bokuden, e decisero che non si poteva far altro che imitare il modo in cui il Maestro stesso si sarebbe comportato in simili circostanze.
Per fare ciò, attaccarono un cavallo particolarmente bizzoso ad un carro sulla strada lungo la quale sapevano che Bokuden sarebbe passato. Spiarono di nascosto la scena da una certa distanza e con grande sorpresa videro Bokuden attraversare la strada per andare dalla parte opposta standosene bene alla larga dal cavallo.
Questo finale colse tutti alla sprovvista e in seguito, dopo aver confessato a Bokuden il loro esperimento, gli chiesero per quale motivo avesse cacciato così all’improvviso il suo discepolo.
Bokuden rispose: "Se una persona ha un’attitudine mentale che gli consente di camminare distratta vicino a un cavallo senza considerare le sue possibili reazioni, essa è una causa persa per un’insegnante, non importa quanto si applichi allo studio delle tecniche. Credevo che lui fosse una persona dotata di maggior buon senso ma mi sbagliavo".
Il pescatore e il turista
Sul molo di un piccolo villaggio messicano, un turista americano si ferma e si avvicina ad una piccola imbarcazione di un pescatore del posto.
Si complimenta con il pescatore per la qualità del pesce e gli chiede quanto tempo avesse impiegato per pescarlo.
... Il pescatore risponde: ‘Non ho impiegato molto tempo’ e il turista: ‘Ma allora, perché non è stato di più, per pescarne di più?’ Il messicano gli spiega che quella esigua quantità era esattamente ciò di cui aveva bisogno per soddisfare le esigenze della sua famiglia.
Il turista chiese: ‘Ma come impiega il resto del suo tempo?’
E il pescatore: ‘Dormo fino a tardi, pesco un po’, gioco con i miei bimbi e faccio la siesta con mia moglie. La sera vado al villaggio, ritrovo gli amici, beviamo insieme qualcosa, suono la chitarra, canto qualche canzone, e via così, trascorro appieno la vita.’
Allorché il turista fece: ‘La interrompo subito, sa' sono laureato ad Harvard, e posso darle utili suggerimenti su come migliorare. Prima di tutto dovrebbe pescare più a lungo, ogni giorno di più. Così logicamente pescherebbe di più. Il pesce in più lo potrebbe vendere e comprarsi una barca più grossa. Barca più grossa significa più pesce, più pesce significa più soldi, più soldi più barche… Potrà permettersi un’intera flotta! Quindi invece di vendere il pesce all’uomo medio, potrà negoziare direttamente con le industrie della lavorazione del pesce, potrà a suo tempo aprirsene una sua. In seguito potrà lasciare il villaggio e trasferirsi a Mexico City o a Los Angeles o magari addirittura a New York! Da lì potrà dirigere un’enorme impresa!’
Il pescatore lo interruppe: ‘Ma per raggiungere questi obiettivi quanto tempo mi ci vorrebbe?’
E il turista: ‘20, 25 anni forse’ quindi il pescatore chiese: ‘….e dopo?’
Turista: ‘ Ah dopo, e qui viene il bello, quando il suoi affari avranno raggiunto volumi grandiosi, potrà vendere le azioni e guadagnare miliardi!’
E il pescatore:’miliardi? e poi?’
Turista: ‘Poi finalmente potrà ritirarsi dagli affari e andare in un piccolo villaggio vicino alla costa, dormire fino a tardi, giocare con i suoi nipoti, pescare un po’ di pesce, fare la siesta, passare le serate con gli amici bevendo qualcosa, suonando la chitarra e trascorrere appieno la vita’