Cercare la tranquillità




In un mondo che più non riconosco,
vedo gente sempre più lontana.
La guerra è in ogni dove,
la cattiveria è ovunque.
Pochi sono gli amici.
Nel tumulto esteriore,
ricerco la tranquillità.
Fuori può esserci tempesta,
ma nel cuore e nell'anima,
ho la calma di un lago montano,
che i Maestri mi hanno insegnato.

Hagane Chīsana Shizuku 鋼小さな滴

Donne Samurai




Nakano Takeko

Anche alle soglie del 1900 possiamo trovare donne-bushi che della propria temeraria fierezza hanno lasciato molto più che delle leggende. Fra queste spicca la figura di Nakano Takeko il cui ricordo è tuttora vivo nel cuore dei giapponesi.

Praticante delle arti marziali che aveva appreso da famosi maestri dell'epoca, Nakano Takeko era esperta nell'uso della naginata, così come sua sorella Yuko e sua madre Kouko.
Le sue gesta sono ricordate anche nel film "L'ultimo Samurai", che narra del periodo della guerra "Boshin", una guerra civile giapponese combattuta tra il 1868 ed il 1869 tra i sostenitori dello Shogunato Tokugawa e i fautori della re-instaurazione dell'imperatore Meiji. Quest'ultima fazione era più piccola ma relativamente più modernizzata e fu presto in grado di far volgere l'andamento della guerra a proprio favore.

La fama di Nakano Takeko è legata alla storia della battaglia in difesa del Castello di Wakamatsu (1868), combattuta al fianco dei samurai del clan Aizu. Il clan degli Aizu, fedele sostenitore dello shogunato Tokugawa, si trovò schiacciato da un enorme numero di soldati nemici: tremila samurai contro ben più di ventimila guerrieri armati con armi moderne.

Fu in questo drammatico contesto che Nakano Takeko si trovò a guidare il "Joushitai", la Truppa delle donne Aizu, un'unità di venti donne, determinata a tener testa alle truppe nemiche fino alla fine.
Durante il combattimento Nakano si lanciò contro le linee nemiche, uccidendo con la sua naginata un elevato numero di guerrieri prima di essere colpita al torace da un colpo di fucile. Ferita, ma non ancora sconfitta, chiese alla sorella Yuko di tagliarle la testa per evitare di finire nelle mani del nemico, giusta ricompensa per l'onore con il quale ha vissuto.

Il sogno di Akinosukè




Akinosuké era un Samurai semplice di campagna. Un giorno si trovava con due amici a parlare nel suo giardino e, sentendosi stanco, schiacciò un pisolino all'ombra di un bellissimo cedro.
Si addormentò e iniziò a sognare. Nel sogno si trovava nello stesso giardino. Più tardi giunse un corteo e l'uomo che ne era a capo iniziò a parlargli. Gli disse che era stato mandato dal re e che il re richiedeva la sua presenza al palazzo.
Akinosuké obbedì. Fu fatto accomodare in un palanchino e portato al palazzo reale. Una volta arrivato, il Samurai apprese che il re lo voleva come genero; indossò gli abiti da cerimonia preparati per lui e raggiunse la sala immensa dove si tenne la cerimonia nuziale. Conobbe così la sua futura moglie e dopo il matrimonio il re gli affidò il governo dell'isola chiamata Raishu.
Akinosukè sbarcò sull’isola insieme alla moglie e nei primi tre anni di governo, grazie all'aiuto dei fidati consiglieri, promulgò leggi che migliorarono le condizioni sociali della popolazione. L'isola e i suoi abitanti prosperarono per i successivi venti anni e la moglie gli diede sette figli.
Purtroppo un giorno la donna si ammalò e morì. Fu sepolta in cima a una bellissima collina e una volta terminato il periodo di lutto il re ordinò ad Akinosuké di tornare al suo popolo assicurandolo che si sarebbe preso egli stesso cura dei suoi figli.
Il vedovo obbedì all'ordine e fu accompagnato con onore su una nave. Ma quando la nave lasciò il porto l'isola di Raishu si fece sempre più grigia, ed infine sparì per sempre.
In quel momento Akinosuké si svegliò e si rese conto di trovarsi sotto al suo cedro in compagnia dei due amici. Raccontò a loro il suo sogno e gli amici, stupiti, gli dissero che aveva dormito solo per pochi minuti. Uno dei due gli rivelò di aver visto una farfalla che svolazzava sul suo viso mentre dormiva, la stessa farfalla si era poi avvicinata al suolo e fu catturata da una grossa formica che la tirò dentro al formicaio. I tre sentirono che la farfalla era l'anima di Akinosuké e che il formicaio nascondeva il segreto del suo sogno. Iniziarono così a scavare e portarono alla luce una piccola città in miniatura simile a quella del sogno di Akinosuké. Al centro della città si distingueva anche un'isola con una collina sormontata da un piccolo tumulo, al cui interno, scoprirono, era sepolta una formica femmina.

Samurai IV




Hagane Chīsana Shizuku 鋼小さな滴

Nel periodo EDO la casta militare attuò un fortissimo regime di repressione sul popolo, soprattutto su alcune caste minori che venivano vessate ingiustamente.

Hagane Chīsana Shizuku apparteneva invece ad una casta privilegiata ma si adoperò per aiutare chi ne aveva bisogno.
In una delle lettere che lasciò in eredità ai suoi allievi scrisse che la repressione più dura sulle caste minori non veniva attuata dai militari ma dalla stessa gente comune di quella casta che, investita da piccoli privilegi, spiava e tradiva gli stessi loro concittadini. I militari erano relativamente pochi in confronto a tutta la popolazione, e sarebbe bastato che le caste minori si organizzassero per cambiare in poco tempo lo status quo.

Il popolo si controlla con il popolo, e questa vecchia regola i militari la conoscevano bene. Inoltre, una volta sfruttati, riservavano lo stesso trattamento anche a coloro che si credevano "privilegiati".

"Gli uomini si controllano facilmente" - diceva - "ed è la loro stupidità che viene sfruttata dai potenti che senza queste persone non hanno nessun potere".

Il Guerriero-Fiore




Un antico adagio giapponese ricorda l'analogia tra il fiore di sakura e il Bushi:

Fra i fiori il ciliegio
Fra gli uomini il Bushi

Questo ad esprimere l'eccellenza e la nobiltà d'entrambi.
Ma il detto sottintende anche molte altre analogie, evidenti al cuore del giapponese, meno evidenti all'occidentale.
Per questo motivo è importante comprendere le caratteristiche di questo fiore e, soprattutto, sul messaggio che comunicava e comunica tutt'ora ai figli del Sol Levante.
Per chi è spiritualmente desto, l'universo è un simbolo, ed ogni cosa parla il linguaggio dei simboli.
Il "significato" del cosmo è l'Assoluto in quanto l'Assoluto si è fatto segno e significato nelle cose visibili.
In Giappone il ciliegio è il simbolo radioso della primavera che annuncia il ritorno alla vita, è il messaggero della vittoria del Sole.
Gli alberi esultano nella loro nuova fioritura. La potenza della terra si rivela come grazia, bellezza, purezza e fragranza nello splendore del cielo.
Ma il fiore di ciliegio, nella sua bellezza, è quanto di più fragile ed effimero possa immaginarsi, tanto da essere assunto a simbolo dell'impermanenza (mujò).
Il monaco Ippen, quando qualcuno gli chiedeva di svelare la verità sulla vita e sulla morte soleva dire:

"Hana mi toe: chiedetelo ai fiori del ciliegio"

Allo stesso modo, la potenza del Bushi, prorompente dalle fonti profonde dello spirito e da esse alimentata, non si rivela come peso brutale e travolgente, ma con le caratteristiche del fiore di sakura: la purezza e lo splendore, la leggerezza e l'impermanenza. La fragranza del fiore, delicata ed evocatrice, divenne allegoria dell'onore del Bushi che profuma la primavera della sua vita e la sua terra oltre il breve cerchio dell'esistenza. Oltre la morte. Nel cuore di quanti ricorderanno le sue gesta e da esse trarranno linfa per nuove fioriture.
La parola del Bushi veniva educata in modo da non essere arrogante. Essa rivelava un'aristocratica sensibilità del cuore. La qualità di quel "cor gentile" che, in occidente come in oriente, fu prerogativa e contrassegno del vero cavaliere.
Benevolenza, cortesia, gentilezza, delicata sensibilità non solo non tolgono nulla alla potenza del braccio, al contrario: sono inseparabili dal giusto compimento della Via.

La delicatezza del fiore di ciliegio, la sua effimera e radiosa fioritura, esprime la virtù del non-attaccamento.
Dopo aver annunciato la primavera, il fiore di sakura si lascia trasportare dal vento.
Il Bushi paragonò la sua vita a quella effimera e bella dei fiori di ciliegio.
Disciplina e meditazione. Alleggerendo il peso della sua humanitas, della componente terrestre del suo essere, lo hanno reso lieve e pronto al distacco.
Gli insegnarono a considerare la morte alla stregua del vento di primavera in cui non v'è nulla di oscuro: viene dall'azzurro mistero del cielo a proclamare la vita, petali danzanti nel vuoto ne annunciano la presenza.
Il vento distacca i fiori dai rami per cospargerne i prati e i cammini degli uomini, le acque dei torrenti, le tombe dimenticate, l'erba novella, i capelli delle fanciulle ridenti, le aule silenziose dei templi e le vesti severe dei monaci.
E come vento di primavera, il Bushi apprese a considerare la sua vita e la sua morte. Un viaggio da Mistero a Mistero, da Vita a Vita passando per la vita terrena.
La sua educazione ebbe lo scopo di renderlo cosciente di questo andare, del suo breve passaggio per la terra e della missione dì testimoniarvi il Sole.
Lo rese cosciente del suo essere uomo-fiore in una terra in cui moltissimi alberi "s'abbrancano alla terra" con radici tenaci.
Ma il vento d'inverno anch'essi abbatte, e sarà tanto più doloroso lo schianto quanto più forte sarà stato l'attaccamento alla terra.

Per questo il Bushi, nell'impermanenza della vita, come lo scrittore suicida, sceglie il sentiero dell'eternità.

Un kamikaze della seconda guerra mondiale, prima di morire, scrisse:

Come fiori di sakura
a primavera
puri e radiosi
lasciateci cadere

Il Bushi non è prodotto di un'epoca determinata nè di una moda.
E’ il risultato di una lunga educazione impartita per molti secoli da molti maestri che lo trasformarono da predatore selvaggio a seguace di una Via e da essi apprese a difendere una Terra, un Signore, una visione del mondo.
Confucio gli insegnò la benevolenza. Lo Shinto l'amore per la natura e la contemplazione del suo mistero. Lao Tzu e il Buddha, attraverso lo Zen, gli insegnarono la dottrina del Vuoto (kû), dell'impermanenza (mujô) e del risveglio (satori).
Lo "shinigurui" è la cosciente accettazione che la vita è simile al fiore di sakura.
E’ una dottrina incomprensibile alle anime pavide, o a quelle attaccate al vivere ad ogni costo.

Oggi siamo propensi a tacciar di fanatismo chiunque muoia per una fede diversa da quella ritenuta "giusta" dal nostro sistema culturale.

In occidente kamikaze è divenuto sinonimo di inutile sacrificio, di una vita gettata via senza scopo. Un esempio da non seguire, un atteggiamento da sottoporre al vaglio attento degli psichiatri o alle analisi degli ideologi dell'etica sociale.
Tuttavia, giudicandolo dall'ottica del profitto e della perdita, anche il martire cristiano delle origini è un "fanatico". E lo è chiunque reputi il dono della propria esistenza alla propria fede un atto più degno e più "umano" che conservarla ad ogni costo.
Se il "pazzo morire" ricorda dei fiori l'effimero splendore, la concezione del vivere presso le moderne culture dell'occidente troppo spesso assomiglia alla lenta putrefazione delle foglie nelle paludi.
Ogni primavera ha la sua fioritura. Ogni albero ha molte fioriture, proprio come la Tradizione di un popolo.

Ma oggi la scure è stata posta alle radici della rosa e del ciliegio.

E, proprio per questo, forse, mai come oggi è valido il messaggio di questo haiku:

Pioggia di primavera
proprio ora ogni cosa
diventa splendida

Chiyo Ni 1701-1775

Samurai III




Hagane Chīsana Shizuku 鋼小さな滴

Hagane Chīsana Shizuku 鋼小さな滴 scrisse durante la sua vita molti testi di difficile interpretazione.
Dopo la sua morte uno degli allievi che li aveva ricevuti in eredità, decise di cercare la "chiave di lettura" che il suo maestro, in un raro momento di apertura, aveva detto esserci.
Il lavoro per scoprire i segreti di quei testi ermetici occuparono buona parte della vita dell'allievo.
L'allievo, ormai diventato maestro, si riferiva a quei testi come ad uno scrigno colmo di grandi tesori.
Uno degli insegnamenti che soleva impartire ai suoi allievi era di non fermarsi mai alle apparenze, che niente è così come sembra e che la vita deve essere vissuta ogni giorno in modo completo e profondo.
Il suo maestro visse in una delle epoche più buie del Giappone, il periodo EDO, dove il potere militare si contraddistinse per un fortissimo regime di repressione a carattere burocratico.
La repressione a quei tempi era durissima, soprattutto per alcune caste sfortunate.
Hagane, nonostante appartenesse ad una casta privilegiata, si adoperò continuamente per aiutare chi ne aveva bisogno, ma diceva sempre che aiutava solo coloro che accettavano il suo aiuto.
Il maestro continuava a ripetere che gli uomini non vedevano il baratro fino a che non ci cadevano dentro, e molti di questi, nonostante stessero cadendo, continuavano a non vedere l'evidenza dei fatti.
Quello vissuto da Hagane era stato uno dei periodi più duri che il Giappone aveva vissuto.
Una elite di pochi che si arrogava il diritto di comandare sulla popolazione che veniva continuamente vessata e costretta ad una vita di ristrettezze, di controllo e con sempre meno libertà.
"Il 'dovere' di un Samurai" - diceva - "è quello di servire la verità e la giustizia, e la verità difficilmente è quella che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi: la verità va assolutamente ricercata a qualsiasi costo e con qualsiasi sforzo."


Samurai II





Sekiun Harigaya, samurai vissuto nel XVII secolo, sviluppò una teoria facendo veri combattimenti nei quali uno dei due avversari poteva venire ucciso.
Sulla base di questa sua teoria egli creò una scuola in cui si ricercava uno "spazio" raggiungibile da ognuno, ma non con metodi ordinari.
Questo livello lo chiamò "sei" che significa "entrare nello spazio più sacro". Sekiun Harigaya insegnava a non imporre una filosofia particolare alla tecnica, e diceva che utilizzare la spada è simile ad utilizzare i bastoncini per mangiare che si tengono senza pensarci come se fossero un estensione delle mani. Diceva anche che non occorre concentrare un potere speciale nell’hara, ma è più importante seguire naturalmente il nostro corpo là dove ci porta, muovendoci come un bambino.
Egli sosteneva che non c’è movimento troppo veloce né troppo lento, non c’è una scelta privilegiata del momento d’intervento da rispettare ma semplicemente, guidati dal nostro corpo, ci si deve spostare senza alcun "ma", o "spazio temporale" tra noi e il nostro avversario. Se la distanza è troppo grande si dovrà avanzare fino a che diventi corretta, se la distanza è corretta allora si deve portare la tecnica.
Il metodo con il quale sviluppò la sua filosofia esprimeva una intenzione attraverso un movimento morbido, sciolto, istantaneo e indipendente dalla potenza.
Sekiun Harigaya sviluppò i principi più importanti delle arti marziali concernenti l'utilizzo dell’energia, del tempo e dello spazio attraverso la sua teoria e con l'ausilio di una raffinata tecnica segreta che manifesta un ideale spirituale "per raggiungere il regno del sacro":
Sulla base di questa consapevolezza arrivò a definire come "animalesche" le tecniche di combattimento a cui erano associate filosofie "barocche", finalizzate solo al combattere e al vincere.

Samurai I




Hagane Chīsana Shizuku 鋼小さな滴


Sui Samurai è stato detto molto. Ma mai abbastanza.
Quello che tutti sanno è che Samurai significa servitore e che un Samurai dedicava l'intera vita al suo signore e alla perfezione in tutto quello che faceva.
Nella storia ci sono stati molti Samurai famosi, possiamo ricordare Miyamoto Musashi, il grande spadaccino dello shōgun che si è ritirato imbattuto e che ha scritto il famosissimo "Go Rin No Sho 五輪書", il libro dei cinque anelli, oppure Oda Nobunaga grande guerriero e stratega che mise in moto la catena di eventi che riunificarono il Giappone terminando il Periodo degli Stati Combattenti, o anche Yamaoka Tesshu che studiò il kenjutsu fino a quando ebbe l'illuminazione durante una meditazione e da quel momento si occupò solo del perfezionamento dello stile nel proprio Dojo in quanto comprese che i Samurai avevano bisogno solo della purezza del loro stile di combattimento. E così molti altri ancora...
E' interessante però parlare anche di altri Samurai, sicuramente meno famosi ma altrettanto importanti.
Uno di questi è Hagane Chīsana Shizuku 鋼小さな滴. Questo Samurai non ha fatto grandi gesta, ma ha compiuto molte piccole azioni che con il tempo hanno portato a grandi cambiamenti.
Azioni talvolta impercettibili, ma come tutti sappiamo, il battito di una farfalla qui da noi può portare grandi sconvolgimenti dall'altra parte dell'oceano.
Hagane Chīsana Shizuku visse in una delle epoche più buie del Giappone, il periodo EDO, dove il potere militare instauratosi si contraddistinse per un regime di repressione a carattere fortemente burocratico. La nazione a quel tempo era plasmata in base al modello confuciano e chiuse le porte ai contatti con tutti gli stranieri ed assunse le caratteristiche tipiche di una società feudale.
Come la maggior parte dei governanti dell'epoca, lo shōgun si poneva l'obiettivo del controllo assoluto su tutti i suoi sudditi e diede inizio ad un periodo di forte repressione.
Per poter vivere i sudditi dovettero adeguarsi alle pesanti e quasi sempre ingiuste restrizioni.
Hagane Chīsana Shizuku fu il primo a capire che l'adattamento non era la migliore delle strategie.
Mentre la maggior parte dei suoi contemporanei scelsero di cambiare loro stessi per poter rimanere aderenti ai forti cambiamenti di vita (anche a costo di grossi sacrifici) Hagane capì invece che in quel modo non sarebbero più stati in grado di combattere le forti ingiustizie.
Non sempre adattarsi è una cosa positiva, soprattutto quando vengono lesi i principali diritti.
I Samurai sono infatti famosi per l'attaccamento al loro signore, ma anche per la loro integrità morale che impone di andare contro lo "status quo" se questo è sbagliato.

Paradiso e inferno




Un giovane samurai di nome Nobushige andò dal maestro Zen Hakuin e gli chiese:
"Dimmi, maestro, c'è davvero un Paradiso e un inferno?"

"Chi sei tu?" Domandò a sua volta il maestro Hakuin.
"Sono un samurai!" Rispose Nobushige.

"Tu, un samurai?" Chiese con tono adirato il maestro Hakuin, poi continuò:
"Visto il tuo comportamento, riesco solo ad immaginare che qualche condottiero ti abbia assunto come suo servitore. Il tuo aspetto è rozzo, indegno di un samurai. Anche la tua faccia è molto brutta. In verità, la tua attitudine deve essere quella di un mendicante."

Nobushige si sentì offeso da quegli insulti e per l'oltraggio subito. Di riflesso portò la mano alla spada e ne impugnò l'elsa.

Aumentando il tono della voce, il maestro Hakuin lo rimbrottò: "Ah, così, tu hai anche la spada. Con un inetto impostore come te, c'è la probabilità che essa sia oramai corrosa dalla ruggine, per tua imperizia e negligenza. In verità, la tua arma è inutile, così come la tua abilità di scherma, per cui, non saresti in grado nemmeno di tagliarmi la testa!"

Nobushige era furibondo di fronte a quelle provocazioni. La sua spada era ormai completamente sguainata dal fodero.
Ora si trovava in alto, pronta a fendere, verso il basso, la testa del maestro Hakuin.

In quel momento, il maestro Zen proseguì placidamente: "Ecco ora per te si aprono le porte dell'inferno."

Sentendo ciò, Nobushige si rese subito conto che le osservazioni del maestro Hakuin facevano parte della sua tecnica di insegnamento. Il samurai rimise subito la spada nel fodero, cadde in ginocchio, e si inchinò al maestro Hakuin che così concluse:

"Ecco, ora per te si aprono le porte del Paradiso."

Il samurai e il pescatore: antico racconto giapponese




Tutto ebbe inizio in Giappone, in un’epoca lontana. A quei tempi viveva un samurai conosciuto per la sua grande generosità, soprattutto verso i meno fortunati.

Un giorno un samurai ricevette l’incarico di andare in missione in un villaggio non lontano dal suo. Una volta conclusa la missione, proprio quando stava per rientrare a casa, il samurai vide un pescatore dall’espressione molto triste. Gli sembrò che stesse singhiozzando, quindi decise di avvicinarsi per domandargli cosa gli fosse successo. Il pescatore gli raccontò che stava per perdere la sua barca a causa di un debito con un commerciante della zona. Dato che egli non aveva altro modo per estinguerlo, il creditore aveva deciso di confiscargli la piccola barca, come forma di garanzia. Ma se il pescatore l’avesse persa, non avrebbe perso anche il suo lavoro e non avrebbe avuto modo di mantenere la sua famiglia.

Il samurai lo ascoltò con attenzione. Il suo nobile cuore si era commosso udendo questo racconto. Quindi, senza alcuna esitazione, prese del denaro dalla sua sacca e lo consegnò al pescatore. “Non è un regalo”, disse. Pensava, infatti, che regalare le cose fosse sbagliato, in quanto stimola la pigrizia. “Si tratta di un prestito. Entro un anno tornerò e mi renderai il denaro dovuto. Non ti chiederò alcun interesse sulla cifra”. Il pescatore non riusciva a crederci. Gli promise che avrebbe fatto di tutto per restituirgli il denaro e lo ringraziò mille volte per il gesto.

Trascorso un anno, il samurai tornò al villaggio. Confidava nel fatto che il pescatore avrebbe pagato il denaro prestato e provava una forte emozione al pensiero di rivederlo. Sperava che il suo aiuto gli fosse servito a migliorare la sua condizione di vita.

Quando il samurai si recò nello stesso punto nel quale un anno prima aveva incontrato il pescatore, non vi trovò nessuno. Chiese agli altri pescatori, ma nessuno sapeva dare una risposta. Alla fine, uno di questi gli indicò dove viveva la persona che stava cercando; quindi il samurai si recò fino alla dimora del pescatore.

Una volta giunto sul posto, il samurai trovò solo la moglie del pescatore e i figli, i quali giurarono di non sapere dove si trovasse il padre. Tuttavia, il samurai capì che stavano mentendo. Il pescatore si stava nascondendo per non saldare il suo debito.

Il samurai si adirò. Gli sembrava inammissibile che la sua generosità venisse ripagata con un furto. Iniziò quindi a cercare il pescatore ovunque, persino sotto i sassi. Infine, lo trovò vicino a un dirupo.

Quando l’uomo vide il samurai, restò impietrito. Riuscì solo a dire che la pesca era stata pessima e che non aveva i soldi per saldare il suo debito. “Ingrato!”, gli urlò il samurai. “Ti ho aiutato quando ne avevi più bisogno! Ed è questo il modo di ripagarmi?”. Il pescatore non sapeva cosa dire. Allora il samurai, spinto dalla rabbia, prese la sua spada per punire il pescatore.

“Mi dispiace”, disse quindi il pescatore. E aggiunse le seguenti parole: “Se la tua mano avanza, trattieni la collera; se la tua collera avanza, trattieni la mano“. Il samurai si fermò. Quell’uomo così umile aveva ragione. La rabbia sparì e i due concordarono una scadenza di un altro anno affinché il pescatore potesse estinguere il suo debito.

Quando il samurai tornò a casa, ancora scosso da quello che era successo con il pescatore, vide una luce provenire da una stanza. Era strano, anche perché era già molto tardi. Si avvicinò furtivamente e notò che sua moglie era a letto. Tuttavia, accanto a lei c’era qualcuno. L’uomo si avvicinò e notò che si trattava di un samurai.

Senza esitazione, estrasse la sua spada. Si avvicinò lentamente e stava per entrare e commettere una follia, quando improvvisamente ricordò le parole del pescatore: “Se la tua mano avanza, trattieni la collera; se la tua collera avanza, trattieni la mano”. Allora respirò a fondo e gridò semplicemente: “Sono a casa!”

La moglie uscì, felice, per salutarlo. Al suo seguito, uscì la madre del samurai. “Guarda chi abbiamo qui!”, gli disse la moglie. Aveva paura di rimanere sola e per questo aveva chiesto alla suocera di farle compagnia. La madre del samurai si era messa addosso i vestiti del figlio; nel caso fosse entrato un ladro, questi avrebbe infatti pensato che ci fosse un guerriero in casa e non si sarebbe avvicinato.

L’anno dopo il samurai si recò di nuovo al villaggio del pescatore, il quale lo stava aspettando. Questi aveva con sé il denaro e anche gli interessi; era quindi stato un buon anno. Vedendolo, il samurai lo abbracciò. “Tieni pure il denaro”, gli disse. “Non mi devi niente. Sono io a essere in debito con te”, aggiunse.

Un racconto giapponese - Il Samurai e il Maestro del Te


Molto tempo fa viveva un Maestro del Tè. Era un uomo anziano, piccolo di statura e fragile. Era conosciuto in tutta la regione rurale in cui viveva per la sua bella Cerimonia del Tè. Il suo lavoro era così eccellente che un giorno l’Imperatore sentì parlare di lui e lo convocò a Palazzo per realizzare questa speciale cerimonia.

Il tranquillo e piccolo Maestro del Tè ricevette l’invito dall’Imperatore. Impacchettò i suoi averi, se li mise in spalla e iniziò un lungo viaggio a piedi verso il Palazzo.

Dopo molti lunghi giorni, il piccolo uomo arrivò e praticò la cerimonia per l’Imperatore. L’Imperatore ne fu così impressionato! Donò al Maestro del Tè il massimo onore che gli fosse concesso. Gli regalò due spade giapponesi dei Samurai.

Il Maestro del Tè accettò le spade. Si inchinò davanti all’Imperatore, appoggiò le spade sulla schiena, raccolse i suoi oggetti personali e si rimise in viaggio verso casa.

Due giorni più tardi, il piccolo uomo camminava attraverso un piccolo villaggio di campagna quando fu individuato da un Samurai che proteggeva quella zona. Era un grande e potente Samurai. Dapprincipio il Samurai non credette ai propri occhi. Da dove venivano quelle spade? Che cosa se ne faceva quel piccolo e fragile uomo?

Il Samurai affrontò il piccolo uomo. “Come osi prenderti gioco di tutti i Samurai! Non posso sopportare un tale disonore.”

Il Samurai sfidò il Maestro della Cerimonia del Tè a un duello con le spade e disse: “Ci incontreremo qui domani alle quattro del pomeriggio e ci batteremo.”

L’onore non permetteva al Maestro della Cerimonia del Tè di rifiutare la sfida, quindi accettò. Ma aveva paura e si recò dal proprio maestro di Cerimonia del Tè per chiedergli consiglio su cosa fare. “Non ho mai tenuto in mano una spada in tutta la vita,” disse. “Mi ammazzerà di sicuro”.

Il maestro di Cerimonia del Tè più anziano rispose con un sorriso tranquillo. “Non ti preoccupare,” disse. “Vai ad incontrarlo all’ora pattuita e fai quello che sai fare. Pratica la Cerimonia del Tè”.

Alle quattro, il Samurai arrivò con le spade. Ma il Maestro della Cerimonia del Tè arrivò con il carbone, i fiammiferi, un bollitore per il tè, l’acqua, le tazze e iniziò a preparare il tè.

Il Maestro del Tè aprì il suo contenitore e il profumo pungente del tè verde si mischiò alla fragranza dei fiori. Tranquillamente e concentrato, il maestro del tè vuotò con un cucchiaio una piccola quantità di tè verde in una tazza. Con il mestolo, prese l’acqua calda dal bollitore e la versò sopra il tè. Il Samurai guardava, catturato dalla tranquilla intensità dei movimenti del maestro del tè. Preso il frustino, il maestro del tè vi si applicò vigorosamente fino a che il tè non schiumò. Quindi inchinandosi con calma totale, il maestro del tè porse la tazza al Samurai.

Il Samurai sorseggiò nella maniera giusta il tè. Quando finì, disse al Maestro del Tè: “Sono sconfitto. Hai unito così perfettamente corpo e mente da battermi. L’unica cosa che possa fare con onore a un uomo come te è chiedergli di insegnarmi. Saresti il mio maestro nella via della cerimonia del tè?

“Certo”, disse il Maestro del Tè. “Ci incontreremo domani al tramonto”.


Racconto giapponese - ROKURO-KUBI


Circa seicento anni fa c’era un samurai che si chiamava Isogai Heidazaemon Taketsura e prestava servizio presso il Signore Kikuji di Kyushu.
Isogai aveva avuto molti antenati guerrieri e da loro aveva ereditato un’attitudine naturale agli esercizi militari e una forza straordinaria. Quando era ancora un ragazzo, aveva superato i genitori nell’arte della spada, nel tiro con l’arco e nell’uso della lancia e aveva manifestato un eccezionale talento nell’arte militare. In seguito, all’epoca della guerra di Eikyo (1) si distinse a tal punto che gli furono conferiti alti onori. Ma quando la casa di Kikuji cadde in rovina, Isogai si trovò senza un padrone. Avrebbe potuto facilmente entrare al servizio di un altro daimyo, ma dato che non aveva mai cercato di distinguersi per il puro piacere personale e il suo cuore restava fedele al suo precedente padrone, preferì andarsene in giro per il mondo. E così si tagliò i capelli e divenne sacerdote, prendendo il nome buddista di Kwairyo.
Ma sotto il koromo (2) del sacerdote Kwairyo manteneva sempre dentro di sé il cuore caldo del samurai. Come in passato aveva riso dei rischi, così pure ora disprezzava il pericolo, e in ogni tempo e ogni stagione viaggiava per predicare la Buona Legge in luoghi in cui nessun altro sacerdote avrebbe osato avventurarsi. Perché quella era un epoca di violenze e tumulti, le strade non erano sicure per il viaggiatore solitario, anche se era un sacerdote.
Durante il suo primo lungo viaggio, a Kwairyo capitò di visitare la provincia di Kai (3). Una sera, mentre stava viaggiando attraverso le montagne di quella provincia, lo sorprese l’oscurità in un distretto disabitato, a chilometri di distanza da qualsiasi villaggio. Così si rassegnò a trascorrere la notte sotto le stelle, e trovato che ebbe un luogo erboso adatto a lato della strada, si sdraiò e si preparò a dormire. Non aveva mai avuto paura delle scomodità e gli andava bene anche dormire su una nuda roccia, se non riusciva a trovare niente di meglio, e per lui la radice di un pino era un ottimo cuscino. Il suo corpo era come l’acciaio, e non si era mai preoccupato di rugiada, pioggia, gelo o neve.
Si era appena coricato, quando un uomo arrivò lungo la strada portando un’ascia e un grande fascio di legna tagliata. Il taglialegna si fermò vedendo Kwairyo sdraiato e, dopo averlo osservato per qualche istante in silenzio, disse con un tono molto sorpreso:
«Che razza di uomo puoi essere, mio buon signore, se hai il coraggio di sdraiarti da solo in un posto come questo? È frequentato da apparizioni e spettri, moltissimi, non hai paura delle "Cose Pelose"?»
«Amico mio», rispose gentilmente Kwairyo, «sono solo un sacerdote itinerante, un “Ospite delle Nuvole e dell’Acqua”, come ci chiama la gente: Unsui-no-ryokaku (4). E non ho il minimo timore delle "Cose Pelose", se intendi spiriti maligni in forma di volpi o di tassi, o altre creature del genere. E quanto ai luoghi solitari, mi piacciono: sono adatti alla meditazione. Sono abituato a dormire all’aria aperta e ho imparato a non temere per la mia vita».
«Devi essere davvero un uomo coraggioso, onorevole sacerdote», replicò il taglialegna, «per metterti a dormire qui! Questo posto ha una cattiva fama, molto cattiva. Ma come dice il proverbio: “Kunshi ayayuki ni chikayorazu” [“L’uomo che occupa una posizione elevata non deve esporsi inutilmente al pericolo”], e ti posso assicurare, mio signore, che è molto pericoloso dormire qui. Perciò, anche se la mia casa non è altro che una piccola e misera capanna, permettimi di pregarti di venire a casa con me. Non posso offrirti nulla da mangiare, ma troverai almeno un tetto sotto cui potrai dormire senza pericolo».
Aveva parlato con molta serietà, e Kwairyo, apprezzando il tono gentile dell’uomo, accettò la sua modesta offerta. Il taglialegna lo guidò lungo uno stretto sentiero, che conduceva dalla strada principale attraverso il bosco che ricopriva la montagna. Era un sentiero selvaggio e pericoloso, che a volte costeggiava precipizi, altre volte non offriva altro che una rete di radici scivolose per fermarsi a riposare, e altre volte ancora serpeggiava al di sopra o attraverso ammassi di rocce frastagliate. Ma alla fine Kwairyo si trovò su uno spazio aperto in cima a una collina con la luna piena che brillava su di lui e vide davanti a sé una piccola e modesta capanna gradevolmente illuminata dall’interno. Il taglialegna lo condusse a una tettoia sul retro della casa, dove arrivava l’acqua attraverso tubi di bambù collegati a un ruscello vicino, e i due uomini si lavarono i piedi. Al di là della tettoia c’era un orto e un boschetto di cedri e bambù, e oltre gli alberi s’intravedeva lo scintillio di una cascata che scendeva dall’alto e ondeggiava alla luce della luna come un lungo abito bianco.
Quando Kwairyo entrò nella capanna insieme alla sua guida, vide quattro persone, uomini e donne, che si riscaldavano le mani a un piccolo fuoco acceso nel ro (5) della stanza principale. S’inchinarono leggermente al sacerdote e lo salutarono con il massimo rispetto. Kwairyo si stupì che persone tanto povere e che vivevano così isolate dal mondo conoscessero le forme cortesi di saluto. “Questa è brava gente”, pensò, “e devono essere stati istruiti da qualcuno che ben conosceva le regole della buona educazione”. Poi, rivolgendosi al suo ospite, l’aruji o padrone di casa, come lo chiamavano gli altri, disse:
«Dal tuo modo gentile di parlare e da questo benvenuto pieno di cortesia che mi è stato dato dai tuoi immagino che tu non sia stato sempre un taglialegna. Forse in passato facevi parte di una delle classi superiori?»
Sorridendo il taglialegna rispose:
«Non ti sei sbagliato, mio signore. Anche se ora vivo in queste condizione, un tempo sono stato una persona di una certa distinzione. La mia storia è la storia di una vita rovinata, rovinata da un errore da me commesso. Ero al servizio di un daimyo e il mio grado al suo servizio era tutt’altro che basso. Ma mi piacevano troppo le donne e il vino e accecato dalla passione mi comportai in modo malvagio. Il mio egoismo portò alla rovina della nostra casa e provocò la morte di molte persone. La punizione mi colpì, e per lungo tempo continuai a fuggire attraverso il paese. Ora prego spesso di avere la possibilità di riparare in qualche modo al male che ho fatto e di ricostruire la casata dei miei antenati. Ma ho paura che non troverò mai un modo per farlo. Tuttavia mi sforzo di superare il karma dei miei errori con il pentimento sincero e di aiutare per quanto posso coloro che sono in disgrazia».
A Kwairyo piacque questa dichiarazione di buone intenzioni e disse all’aruji:
«Amico mio, ho avuto occasione di vedere che una persona in preda alla follia durante la gioventù può arrivare col passare degli anni a vivere una vita onesta e pura. Nei sacri sutra è scritto che coloro che sono i peggiori peccatori possono diventare, grazie alla forza di una buona decisione, i migliori benefattori. Sono certo che il tuo cuore è buono e spero che ti arriderà una migliore fortuna. Questa notte reciterò i sutra per la tua sorte e pregherò che tu possa ottenere la forza di superare il karma di tutti gli errori del passato».
Rassicurandolo in questo modo, Kwairyo diede la buona notte all’aruji, e questi gli mostrò una piccolissima stanza laterale dove era stato preparato un letto. Poi tutti andarono a dormire, tranne il sacerdote che cominciò a leggere i sutra alla luce di una lanterna di carta. Continuò a leggere e pregare fino a tarda ora, poi aprì una finestrella nella sua stanzetta per dare un’ultima occhiata al paesaggio prima di coricarsi. Era una bella notte: non c’erano nuvole in cielo né vento, e la forte luce della luna gettava nitide ombre nere tra le foglie e brillava sulla rugiada del giardino. Stridii di grilli e di “insetti campana” (6) producevano un clamore musicale, e il suono della cascata vicina si faceva più profondo nella notte. Udendo il rumore dell’acqua Kwairyo si sentì assetato e, ricordando l’acquedotto di bambù dietro la casa, pensò che avrebbe potuto andare a bere lì, senza disturbare la gente di casa che dormiva. Fece scivolare di lato con molta cautela la parete scorrevole che separava la stanza dall’abitazione principale e alla luce della lanterna vide i corpi sdraiati… senza testa!
Per un attimo fu disorientato pensando che fosse stato commesso un delitto. Ma subito dopo si accorse che non c’era sangue e che i colli senza testa non sembravano essere stati tagliati. Allora pensò tra sé: “O si tratta di un’illusione creata dai goblin, oppure sono stato attirato nell’abitazione di un Rokuro-Kubi…(7) Nel libro di Soshinki (8) sta scritto che se uno trova il corpo di un Rokuro-Kubi senza testa e trasporta il corpo in un altro luogo, la testa non potrà mai ricongiungersi al collo. E il libro aggiunge che se la testa ritorna e scopre che il suo corpo è stato spostato, colpirà il suolo tre volte, rimbalzando come una palla, poi ansimerà in preda al più grande terrore e subito dopo morirà.
Ora, se questi sono dei Rokuro-Kubi, non hanno buone intenzioni nei miei confronti, per cui sarò giustificato se seguirò le istruzioni del libro…”.

Afferrò per i piedi il corpo dell’aruji, lo spinse verso la finestra e lo buttò fuori. Poi andò alla porta posteriore, che trovò sprangata, e ipotizzò che le teste fossero uscite attraverso il foro per il fumo sul tetto, che era stato lasciato aperto. Aprendo delicatamente la porta, si diresse verso il giardino e procedette con tutta la prudenza possibile verso il bosco al di là di esso. Udì delle voci che discutevano nel bosco e si diresse da quella parte, scivolando furtivamente da un’ombra all’altra, finché raggiunse un buon nascondiglio. Poi, da dietro un tronco, intravide le teste, tutte cinque, che svolazzavano e nel frattempo chiacchieravano tra loro. Stavano mangiando insetti e vermi che trovavano nel suolo o tra gli alberi. Poco dopo la testa dell’aruji smise di mangiare e disse:
«Ah, quel prete itinerante che è arrivato stasera ha proprio un bel corpo grasso! Quando avremo finito di mangiarlo, le nostre pance saranno belle piene… È stato stupido da parte mia dirgli quello che ho fatto: è servito solo a fargli recitare i sutra per aiutare la mia anima! Avvicinarsi a lui durante la recitazione sarebbe difficile, e non possiamo toccarlo finché sta pregando. Ma è quasi mattina, e forse è andato a dormire… Uno di voi vada fino alla casa a vedere cosa sta facendo quel tipo».
Un’altra testa, quella di una giovane donna, si sollevò immediatamente e volò verso la casa leggera come un pipistrello. Dopo qualche minuto tornò e gridò a gran voce con un tono molto allarmato:
«Quel prete non è in casa, se n’è andato! Ma questa non è la cosa peggiore. Ha portato via il corpo del nostro aruji e non so dove l’ha buttato».
A questa notizia la testa dell’aruji, che si distingueva chiaramente alla luce della luna, assunse un aspetto orribile: gli occhi si allargarono mostruosamente, gli si rizzarono i capelli e digrignò i denti. Poi un urlo esplose dalle sue labbra e, piangendo lacrime di rabbia, esclamò:
«Se il mio corpo è stato portato via, non posso ricongiungermi a lui! Quindi devo morire!… E tutto per colpa di quel prete! Ma prima di morire lo troverò! lo divorerò!… E LUI È QUI! dietro quell’albero! è nascosto dietro quell’albero! Guardatelo, quel grasso vigliacco!»
Nello stesso istante la testa dell’aruji, seguita dalle altre quattro, balzò su Kwairyo. Ma il robusto sacerdote si era già procurato un’arma sradicando un giovane albero e con questo colpì le teste man mano che lo attaccavano, allontanandole da sé con colpi tremendi. Quattro di loro fuggirono. Ma la testa dell’aruji, benché colpita più e più volte, continuava furiosamente a saltare sul sacerdote e infine riuscì ad afferrarlo per la manica sinistra del vestito. Ma Kwairyo afferrò velocemente la testa per il nastro che legava i capelli e la colpì più volte, senza lasciare la presa fino a quando non emise un lungo gemito e cessò di lottare. Era morta. Ma i denti tenevano ancora stretta la manica e a causa della loro grande forza Kwairyo non poté costringerla ad aprire le mascelle.
Con la testa che ancora gli pendeva dalla manica tornò alla casa e qui vide gli altri quattro Rokuro-Kubi accovacciati insieme, con le teste ammaccate e sanguinanti riunite ai corpi. Ma non appena si accorsero della sua presenza alla porta posteriore, gridarono tutti insieme: «Il prete! Il prete!» e fuggirono nel bosco attraverso l’altra.
A oriente il cielo si andava schiarendo, stava per nascere il giorno, e Kwairyo sapeva che il potere di goblin era limitato alle ore di oscurità. Osservò la testa attaccata alla manica, con la faccia sporca di sangue, bava e terra, e rise forte pensando tra sé: “Ma che bel miyage!9 la testa di un goblin!” Dopo di che raccolse i suoi pochi averi e senza affrettarsi discese la montagna per continuare il viaggio.

Viaggiò fino a quando arrivò a Suwa nella provincia di Shinano (10) e camminò solennemente lungo la strada principale di Suwa con la testa che gli dondolava al gomito. Donne svennero e bambini gridarono e corsero via, accorse molta folla e ci fu un grande clamore, fino a quanto la torite (come allora veniva chiamata la polizia) prese il sacerdote e lo portò in prigione. Infatti ipotizzarono che la testa fosse quella di un uomo assassinato che, nel momento in cui veniva ucciso, aveva stretto fra i denti la manica dell’assassino. Quanto a Kwairyo, si limito a sorridere e non rispose nulla alle loro domande. Così, dopo aver trascorso una notte in prigione, fu condotto alla presenza dei magistrati del distretto. Gli ingiunsero di spiegare in che modo lui, un sacerdote, fosse stato trovato con la testa di un uomo attaccata alla manica e perché avesse osato sbandierare con tanta sfacciataggine il suo delitto davanti alla gente.
A questa domanda Kwairyo rise forte e a lungo, poi rispose:
«Miei signori, non ho attaccato la testa alla manica: ci si è attaccata da sola, contro la mia volontà. E non ho commesso alcun delitto. Perché questa non è la testa di un uomo, ma di un goblin, e aver provocato la morte di un goblin non è stato uno spargimento di sangue, ma semplicemente una precauzione indispensabile per garantire la mia incolumità».
E continuò raccontando tutta l’avventura, ridendo nuovamente di cuore quando riferì dello scontro con le cinque teste.
Ma i magistrati non risero. Lo giudicarono un feroce criminale e considerarono tutta la storia un insulto alla loro intelligenza. Perciò, senza fare altre domande, decretarono di disporre per la sua immediata esecuzione, tutti tranne uno, un uomo molto vecchio. Questo anziano magistrato non aveva fatto commenti durante il processo, ma dopo aver ascoltato l’opinione dei colleghi, si alzò e disse:
«Permettetemi di esaminare attentamente quella testa, dal momento che penso non sia ancora stato fatto. Se questo sacerdote ha detto la verità, sarà la stessa testa a testimoniare per lui… Portatemi qui la testa!»
Allora la testa, che stringeva ancora tra i denti il koromo che era stato tolto dalle spalle di Kwairyo, fu portata alla presenza dei giudici. Il vecchio la rigirò da ogni lato, la esaminò con attenzione e scoprì sul collo sotto la nuca numerosi strani caratteri di colore rosso. Richiamò l’attenzione dei colleghi su quei segni e li esortò anche a notare che i bordi del collo non presentavano segni di essere stati tagliati da un’arma. Al contrario, la linea di distacco era liscia come quella di una foglia caduta da un ramo… Allora disse agli altri:
«Sono quasi certo che questo sacerdote non ci ha detto altro che la verità. Questa è la testa di un Rokuro-Kubi. Nel libro Nan-ho-i-butsu-shi è scritto che sul collo sotto la nuca di un vero Rokuro-Kubi si trovano sempre dei caratteri di colore rosso. I caratteri ci sono: potete vedere voi stessi che non sono stati dipinti. Inoltre è risaputo che questa specie di goblin ha abitato tra le montagne della provincia di Kai fin dai tempi più antichi. Ma voi, signore», esclamò rivolgendosi a Kwairyo, «che razza di sacerdote siete, per essere così forte e deciso? Di sicuro avete dato prova di un coraggio che pochi sacerdoti possiedono e avete l’aspetto di un soldato più che quello di un sacerdote. Forse un tempo avete fatto parte della classe dei samurai?»
«Avete indovinato, mio signore», rispose Kwairyo. «Prima di diventare sacerdote ho esercitato a lungo la professione delle armi e a quei tempi non avevo paura di nessuno, uomo o demone. Il mio nome era Isogai Heidazaemon Taketsura di Kyushu: probabilmente alcuni tra di voi se ne ricordano».
All’udire questo nome un mormorio di ammirazione si diffuse nell’aula del tribunale, perché molti dei presenti si ricordavano di lui. E da un momento all’altro Kwairyo si trovò fra amici invece che tra giudici, amici ansiosi di dimostrargli la loro ammirazione con gentilezza fraterna. Lo accompagnarono con tutti gli onori alla residenza del daimyo, che lo accolse e lo festeggiò, facendogli splendidi doni perché potesse ripartire. Quando Kwairyo lasciò Suwa era felice come può esserlo un sacerdote in questo mondo di passaggio. Quanto alla testa, la portò con sé, ripetendo scherzosamente che la considerava un miyage.
E ora non rimane che raccontare qualcosa su quella testa.
Un paio di giorni dopo, mentre si allontanava da Suwa, Kwairyo s’imbatté in un bandito che lo fermò in un luogo solitario e gli ordinò di spogliarsi. Kwairyo si tolse il koromo e lo porse al bandito, che si accorse subito di qualcosa che pendeva dalla manica. Il bandito, anche se era un uomo coraggioso, si spaventò, lasciò cadere a terra il vestito e fece un salto all’indietro esclamando:
«Che razza di prete sei? Diamine, sei un uomo più malvagio di me! È vero che ho ucciso della gente, ma non ho mai passeggiato con la testa di qualcuno appesa alla manica… Ebbene, caro il mio sacerdote, mi sa che noi due siamo fatti della stessa pasta e devo dire che ti ammiro! Questa testa potrà tornarmi utile: posso usarla per terrorizzare la gente. Vuoi vendermela? Ti darò i miei vestiti in cambio del tuo koromo e in più cinque ryō per la testa».
Kwairyo rispose:
«Se insisti, ti darò la testa e il vestito, ma ti devo avvertire che non è la testa di un uomo. È la testa di un goblin. Quindi, se la comperi e passerai dei guai, ricordati che non è stata colpa mia».
«Che prete simpatico sei!» esclamò il rapinatore. «Ammazzi la gente e ci scherzi sopra!… Ma io sto parlando seriamente. Questo è il mio vestito e questi sono i soldi, dammi quella testa. A che serve scherzare?»
«Prenditela», disse Kwairyo. «Non stavo scherzando. L’unico scherzo, se così si può chiamare, è che sei abbastanza pazzo da pagare per la testa di un goblin».
E Kwairyo, ridendo forte, riprese il cammino.
E così il bandito prese la testa e il koromo e per un po’ si finse il sacerdote del goblin lungo le strade. Ma quando giunse nei dintorni di Suwa, venne a sapere la vera storia di quella testa ed ebbe paura che lo spirito del Rokuro-Kubi potesse procurargli dei guai. Allora decise di riportare la testa nel luogo da cui era venuta e di seppellirla insieme al suo corpo. Trovò la strada per la capanna solitaria tra le montagne di Kai, ma non c’era nessuno e non riuscì a trovare il corpo. Perciò seppellì la testa da sola dietro la capanna, collocò una lapide sulla tomba e fece celebrare una cerimonia Segaki (11) per aiutare lo spirito del Rokuro-Kubi. E si dice che quella lapide, conosciuta con il nome di “Lapide del Rokuro-Kubi”, si può vedere ancora oggi.

NOTE:
Il periodo di Eikyo va dal 1429 al 1441.
Si chiama così la parte superiore del vestito di un sacerdote buddista.
Attualmente la prefettura di Yamanashi.
Termine che designa un sacerdote itinerante.
Una specie di piccolo focolare ricavato nel pavimento di una stanza. Solitamente il ro è una cavità quadrata e poco profonda, rivestita di metallo e riempita a metà di cenere in cui viene bruciato del carbone.
Traduzione letterale di suzumushi, una specie di grillo con uno stridio caratteristico che ricorda una piccola campana, da cui il nome.
Il rokuro-kubi è immaginato di solito come un goblin il cui collo può allungarsi a dismisura, ma che malgrado ciò resta attaccato al corpo.
Una raccolta cinese di racconti sul soprannaturale.
Dono fatto ad amici o alla gente di casa al ritorno da un viaggio. Di solito il miyage consiste in qualcosa prodotto nella località in cui è stato fatto il viaggio: questo è il significato della battuta di Kwairyo.
Attualmente la prefettura di Nagano.
Segaki è la cerimonia Giapponese degli “Spiriti Affamati”. I fedeli, condotti da un monaco, attirano gli spiriti affamati nella sala di meditazione o fuori casa di notte senza luci con invocazioni e rumori assordanti per offrire loro frutta e sutra, recitati da un monaco rivolto verso est per la pace delle anime in pena. La cerimonia si conclude con l’aspersione dell’aria con acqua purificata al fine di scongiurare la presenza degli spiriti.

Testo originale in: http://www.sacred-texts.com/shi/kwaidan/kwai10.htm


Il maestro di spada


Un maestro di spada, ormai anziano, dichiarò:

Nella vita, ci sono diversi gradi di apprendimento.
Al primo si studia, ma non si ricava niente, e ci si sente inesperti.
Al livello intermedio, l'uomo è ancora inesperto, ma consapevole delle proprie mancanze,
e riesce a vedere anche quelle altrui.
Al livello superiore diventa orgoglioso della propria abilità,
si rallegra nel ricevere lodi, e deplora la mancanza di perizia dei compagni.
Costui ha valore e si comporta come se non sapesse nulla.

Questi sono i livelli in generale.

Ma ce n'è uno che li trascende, ed è il più eccellente fra tutti.
Chi penetra profondamente questa Via è consapevole che non finirà mai di percorrerla.
Egli conosce veramente le proprie lacune e non crede mai,
per tutta la vita, di aver raggiunto la perfezione.
Senza orgoglio, ma con modestia, arriva a conoscere la Via.

Si dice che una volta il maestro Yagyu osservò:

Io non conosco il modo per sconfiggere gli altri, ma la Via per sconfiggere me stesso.
Il samurai avanza giorno dopo giorno, oggi diventa più abile di ieri, domani più abile di oggi.
L'addestramento non finisce mai.


Pagina modificata sabato 9 novembre 2024


Il segreto della salute fisica e mentale non sta nel lamentarsi del passato, né del preoccuparsi del futuro, ma nel vivere il momento presente con saggezza e serietà.
La vita può avere luogo solo nel momento presente. Se lo perdiamo, perdiamo la vita. L'amore nel passato è solo memoria. Quello nel futuro è fantasia.
Solo qui e ora possiamo amare veramente. Quando ti prendi cura di questo momento, ti prendi cura di tutto il tempo.

Siddhartha Gautama




Per noi i guerrieri non sono quello che voi intendete. Il guerriero non è chi combatte, perché nessuno ha il diritto di prendersi la vita di un altro.
Il guerriero per noi è chi sacrifica se stesso per il bene degli altri.
E’ suo compito occuparsi degli anziani, degli indifesi, di chi non può provvedere a se stesso e soprattutto dei bambini, il futuro dell’umanità.

Toro Seduto




Ad ogni forza si contrappone una controforza.
La violenza, anche prodotta da buone intenzioni,
rimbalza sempre su chi l’ha generata.

Yamaoka Tesshu




Ciò che il gregge odia di più è chi la pensa diversamente;
non è tanto l’opinione in sé,
ma l’audacia di pensare da sé qualcosa che non sanno fare.

Arthur Schopenhauer